venerdì 29 luglio 2011

Béatrice Ferrari, una lunga fedeltà al naming

Interviste a chi il naming lo fa #1


Inizia con questo post una serie di interviste che mi auguro interessante per i visitatori del blog. I soggetti intervistati saranno, a vario titolo, coinvolti in attività di brand naming. Quando ho pensato a queste interviste, ho capito che mi interessava raccontare il punto di vista di chi il naming lo fa, più o meno quotidianamente, e magari da diversi anni. La serie non poteva non iniziare con Béatrice Ferrari, un'autorità nel settore. Cognome assai italiano, ma origini francesi:  è lei ad aver "importato" il naming come specializzazione in Italia, a fine anni Novanta. Rigrazio molto Béatrice per aver accolto l'invito a rispondere.

AC: Sei la persona con maggiore esperienza nel naming in Italia, in un certo senso hai importato il naming professionale aprendo la società Nomen® Italia a Milano nel 1989. Ti sembra che l'Italia mostri delle peculiarità oggi rispetto ad altri paesi europei o extraeuropei nell'ambito del naming? Maggiori attenzioni o disattenzioni? Specificità?
BF: Fortunatamente le cose sono molto cambiate da quando sono arrivata in Italia: allora ero un guardata come un'aliena un po' fuori di testa! Essere specializzata in una nicchia così specifica come la creazione di nuovi nomi a vocazione commerciale era davvero insolito e sorprendente. Pochi ci credevano. Ma il mercato già c'era, ed è per questo che l'attività si è sviluppata, lentamente, ma con grande regolarità nel corso degli anni.
Oggi la situazione è diversa: la creazione di nuovi nomi di marca si chiama 'brand naming', e tutti gli attori di comunicazione la propongono tra i loro servizi.
La peculiarità italiana? Ancora oggi - purtroppo - è quella di non dedicare abbastanza attenzione ad elemento così essenziale come quello del nome della marca. Ancora oggi - purtroppo - molte aziende sprecano tempo e denaro perché non considerano la ricerca del brand name come un'attività vera e propria alla quale dedicare un calendario e un budget specifico. Di fatto, ancora troppo spesso ci si preoccupa di 'creare' il nome all'ultimo momento, quando si è alla vigilia del lancio del prodotto, in condizioni quindi non adeguate rispetto al peso del nome nel processo e nel successo della marca.
Nell'improvvisazione, direi che ci sono 2 tendenze dominanti:
- Da una parte c'è la tendenza della piccola/media imprenditoria italiana dinamica e innovativa che ancora riesce a creare nomi forti e distintivi con il colpo di genio: penso ad esperienze come GURU®, MANDARINA DUCK® o ancora GROM®. Ma poiché tutti nomi ormai tendono ad essere già registrati a livello giuridico, questo approccio tende ad essere sempre più ostacolato.
- Dall'altra c'è quella del management improvvisato - che spazia dal piccolo imprenditore all'amministratore della multinazionale - che ancora non sa che un nome deve essere legalmente disponibile come marchio di proprietà per essere utilizzato e pensa di farla franca a colpo di fortuna: "non svegliamo can che dorme" mi diceva anni fa un dirigente d'azienda quando gli segnalavo che il prodotto che aveva lanciato e comunicato a livello nazionale aveva un nome già protetto in Italia da un concorrente straniero. Ovviamente, il cane si era svegliato da solo! Il prodotto fu messo in pattumiera, e anni di ricerca e sviluppo furono messi a male per via di un nome sviluppato senza criterio...
Ci sono però sempre più aziende e professionisti consapevoli della complessità del brand naming: lo dimostra sia le richieste di collaborazione specifiche, sia l'aumento di consulenti specializzati. Direi anche che il numero crescente di persone che partecipano ai miei Naming Day® è un segno molto positivo.

AC: Come hai visto mutare il mercato dei servizi di naming in questi decenni? Quali sono gli scenari più "caldi" che vedi in ambito naming per le aziende e, di conseguenza, per gli specialisti del brand naming?
BF: Credo che il mercato del brand naming è mutato semplicemente perché si tratta ormai di un servizio richiesto espressamente come vero e proprio studio approfondito e non più solo come una 'cigliegina' a complemento di altri servizi di comunicazione. Tutti - che siano aziende o consulenti - hanno preso coscienza di quanto un nome studiato nel modo giusto possa fare la differenza nel successo di una nuova marca (come abbiamo visto, a volte lo imparano sperimentando quanto un nome sia capace di vanificare il lancio di una nuova marca!).
Dal 2009 ho cominciato a proporre questi Naming Day®, giornate di formazione uniche ed esclusive, che hanno per obiettivo di dare gli strumenti indispensabili per potersi muovere nell'attività di brand naming in modo più efficace. I partecipanti comprendono inoltre fin dove si possono muovere 'da soli' e quando invece è più opportuno richiedere la collaborazione di un professionista specializzato.
Da queste giornate, emerge una chiara dicotomia tra due tipi di brand naming: il 'brand naming quotidiano' che riguarda lo sviluppo di nomi per extension line, varianti o divisioni di prodotti e servizi che dispone di solito di tempi e di budget ridottissimi, e il 'brand naming eccezionale' che riguarda invece la creazione ex-novo di un nuovo brand.
Il naming quotidiano può essere a volta direttamente gestito dall'azienda se questa acquisisce i principi chiave che stanno alla base di un brand naming di successo quando quello eccezionale, che spesso dispone di tempi e di budget importanti, richiede l'intervento di squadre altamente specializzate e focalizzate.

AC: Linguistica/semiotica, marketing, aspetti legali. Provi ad assegnare delle percentuali a questi aspetti strategici del naming in termini di energie assorbite in un progetto di naming di ampio respiro? Era così anche quando sei partita o qualcosa e cambiato?
BF: Commentando il mio famoso Naming Circle® - messo in copertina del tuo libro - dico sempre in modo provocatorio che con tanti soldi si può lanciare un brand con un nome incoerente ed impronunciabile. Con tanti soldi e tanta comunicazione HAAGEN-DASZ® diventa facile da pronunciare (Aghendaz), GATORADE® /ga-to-ra-de/ diventa Gheitoreid, la pasta RANA® diventa appetitosa e l'acqua PANNA® estremamente leggera. Quello che non si può assolutamente ignorare è la parte legale: se scelgo per la mia nuova marca un nome già registrato da un concorrente, il rischio è altissimo di ricevere una denuncia, anche se questo non è utilizzato, che mi costringerà a togliere il mio prodotto dal mercato.
Quindi percentuale del 50% per la parte legale... Anzi, forse anche del 100%! Si può capitalizzare su un nome brutto, impronunciabile, incoerente purché sia registrato e ben protetto a livello legale. Non si può invece investire su un nome 'bello', coerente, pronunciabile, esportabile, se questo non è disponibile come marchio di proprietà nella categoria merceologica corrispondente di riferimento.
Il Naming Circle® dà in realtà una percentuale più o meno uguale a ciascuna delle 3 discipline indispensabili allo sviluppo di un brand naming di successo: 1/3 al marketing, 1/3 alla semiotica/linguistica e 1/3 alla proprietà industriale. Considerare queste 3 discipline in modo simultaneo e complementare significa ottimizzare l'investimento e aumentare la capitalizzazione del brand.
Mi spiego: un nome 'sbagliato', cioè incoerente o impronunciabile è molto costoso. Ad esempio, pur essendo una marca di successo, il nome PERLANA® è sbagliato perché limita l'estensione di utilizzo del prodotto. Per anni è stato necessario spiegare che il nome non significava ciò che significava: "Perlana non è solo per la lana". Quando si arriva a dover investire preziosi minuti o spazi di comunicazione per spiegare che il nome 'non significa quel che significa' vuol dire che il nome non è giusto. Ha bisogno di essere supportato quando invece dovrebbe lui supportare il brand.
Nel naming è importante fare la differenza tra il nome e la marca. E' un esercizio molto delicato poiché il nome diventa la marca. Quando ci si sofferma, ci si rende conto però che alcune marche di successo hanno nomi poco felici, e alcune marche 'fallite' hanno invece nomi adeguati. Ad esempio, STILO® era un nome perfettamente adeguato sia al modello di automobile sia alla strategia di naming Fiat®: è il modello stesso che non ha funzionato. Ed ecco che il nome STILO® è diventato sinonimo di insuccesso quando in realtà funzionava benissimo. La stessa confusione si riscontra nel precedente esempio di PERLANA®: il nome è sbagliato ma il prodotto e la marca hanno avuto successo e quindi si tende a pensare che il nome è adeguato. Ma non è così.

AC: Nomi come creature. A quali nomi sei maggiormente affezionata? Che effetto ti fa incontrare per la strada o vedere in vendita un prodotto che hai contribuito a nominare?
BF: E' molto gradevole vedere per strada dei nomi che sono usciti sul mercato grazie ad un mio contributo. Però quando ci penso, mi rendo conto che sono più segnata dalle persone con cu ho collaborato piuttosto che dai nomi emersi. Ho in mente delle relazioni stupende con clienti molto consapevoli ed attenti. Citerei in particolare IVECO® per il quale avevamo sviluppato i nomi STRALIS® per un camion, CURSOR® per un motore o ancora MY WAY® per un autobus: era stata una collaborazione molto ricca e costruttiva, dove si era creata una grande complicità con i responsabili di marketing. Ricordo anche la collaborazione con L'ORÉAL® quando ero ancora a Parigi e per il quale avevamo sviluppato il nome GRAFIC® di GARNIER®. Più recentemente, nel quadro di SYNESIA®, ho portato avanti un progetto insieme ad altri professionisti per ALBERTO GUARDIANI® per il quale abbiamo fatto un'analisi di branding sul posizionamento della marca che ha portato allo restyling del logo: anche in questo caso, lavorare insieme alla famiglia Guardiani è stato un grande piacere oltre che una bella soddisfazione professionale. Ci sono anche le caramelle MORAMOR® di HORVATH® (gruppo LINDT®), i gioielli KOESIA®, l'insegna dei bar ESPRESSAMENTE® di ILLY®, i torroncini CHERUBINI® creati anni fa per AVERNA®, l'acqua naturale NATÌA® e tanti altri nomi e clienti che segnano il mio percorso professionale.
Ma c'è un altro fatto che mi tocca in particolar modo: è quello di riconoscere i miei collaboratori di una volta negli specialisti di brand naming presenti in oggi Italia, e sapere quindi che la competenza c'è per chi la vuole davvero trovare!

martedì 26 luglio 2011

L'ovale blu, il leone e il diavolo: quando l'emblema traina il brand name

Questo è un blog sul naming e anche sul nominare in senso lato. Lo abbiamo più volte ricordato. Nel linguaggio giornalistico un brand è spesso nominato in "altri modi". Quali sono questi modi diversi di nominare un brand? Ad esempio l'ovale blu per Ford, il leone per Generali, la casa dei quattro cerchi per Audi, il diavolo per A.C. Milan (internazionalmente il brand name di questa squadra è spesso pronunciato con A.C. prima di Milan, in Cina l'ho sentito addirittura decurtato, semplicemente A.C.).

Queste soluzioni possono rispondere a varie esigenze: rendere più accattivante la titolazione o la prosa giornalistica, personificare, trovare nuove metafore e persino non nominare il brand name vero e proprio.

Quello che si ricava, ad un livello più generale, è che in molti casi è l'emblema a "trainare" un nuovo "brand name" parallelo a quello vero. Curioso il caso di Ford, dove, in assenza di un vero emblema (così come hanno Renault, Citroën, Audi, Peugeot e tante altre) si è pensato di creare ad hoc un emblema fondato su una forma e su un colore: l'ovale blu. Anche Fiat si trova in una situazione simile, anche se per ora non ho ancora sentito parlare molto dello scudetto rosso di Fiat.

mercoledì 20 luglio 2011

Sul brand name Rio Mare

Pur avendo dedicato un capitolo intero del mio libro sul brand naming al contributo della retorica nell'analisi dei brand name, ho realizzato soltanto l'altro giorno che il brand name Rio Mare è, in fin dei conti, un ossimoro. Non ci avevo mai pensato.

Questa marca arcinota, che nella stagione estiva si rende spesso protagonista di un ampliamento di gamma con prodotti di servizio adatti al clima e al consumo "pratico", è un esempio di brand name ossimorico, anche se si tratta di un ossimoro molto "soft".

L'unione dei termini Rio+Mare è infatti l'unione di due termini antitetici, entrambi afferenti comunque ad un mondo fatto di acqua. "Rio" ricorda infatti un piccolo corso d'acqua, un termine quindi in antitesi con "mare". Ci potremmo vedere, trattandosi di alimentari, pure un'antitesi tra dolce e salato. L'aspetto interessante è che qui, come in altri casi, il brand name cela sapientemente la sua altrettanto sapiente costruzione retorica, dando vita ad un segno linguistico portatore di nuovi significati.

mercoledì 13 luglio 2011

Evviva!, il würstel Amadori senza W ma con tante V

Parliamo di würstel. In questi giorni è in onda lo spot tv con Teresa Mannino dei wusterl Evviva! di Francesco Amadori. Sembra un'operazione molto attenta: packaging salutista su base bianca, spiegazione "tecnica" del prodotto con vari callouts che ne evidenziano i vantaggi e il product name Evviva! Non è la prima volta che presto attenzione ai nomi dei würstel. Per chiunque si avvicini a questo "mondo", non è difficile scoprire come il naming di questo prodotto abbia spesso giocato con la lettera W di würstel: Wudy di Aia (quanti di voi si sono trovati alla guida dietro un bella gigantografia di un Wudy appeso a una forchetta gigantesca?), Wuoi di Citterio, Wulevù di Principe.

Anche Amadori gioca con questa tradizione (nel logo la doppia V sembra quasi una W) ma, alla fine, esce da questo solco, dopo tante operazioni di naming troppo simili registrate negli ultimi anni. Evviva! è un nome curioso perché è in equilibrio tra tradizione e innovazione e consente, naturalmente, di essere giocato anche in chiave promozionale grazie ai valori che porta con sé: la gioia (il sottotitolo pay-off è "Il würstel italiano") e l'attesa di un würstel "salutare" finalmente ripagata.

sabato 9 luglio 2011

Ivan De Menis. Proteggere il tempo con le tessere ovvero naming nell'arte

Vi chiederete cosa ci fanno un artista e i suoi quadri all'interno di un blog dedicato al naming di prodotti, servizi, brand, aziende. Se però avete letto il paragrafo qui accanto o, più semplicemente, il sottotitolo di ALCE, vi renderete conto che anche un quadro di un artista è qualcosa che "fugge l'anonimato" perché un quadro ha quasi sempre un titolo (anche quando è untitled), spesso importantissimo per le vicende storiche (e commerciali) dell'opera stessa.


Ivan De Menis è un artista trevigiano nato nel 1973. Apprezzo molto il suo lavoro, ricco di suggestioni da Gerhard Richter e Mark Rothko. Consiglio davvero la sua personale "Proteggere il tempo" alla San Gregorio Art Gallery di Venezia (zona Guggenheim) se siete da quelle parti. Per titolare i suoi quadri utilizza spesso la metafora della tessera, una metafora che richiama lo splendore dei mosaici bizantini, la parte per il tutto (e quante parentesi si potrebbero aprire, conoscendo la rilevanza del fenomeno del collezionismo nell'arte contemporanea, nell'ambito di un ipotetico collezionismo di tessere disperse in varie collezioni).


Ecco, credo che Ivan De Menis sia molto bravo nel naming delle proprie opere, spesso quadrati contenitori di altri quadrati (pluritessere) o singoli quadrati (tessera). Potrete trovare un Pluritessera 48B o, in una fotografia, potreste vedere il lato B di una Tessera Biface 708/5.
La metafora della tessera è rafforzata dal numero che la segue (la tessera assume valore dentro il mosaico). Nel caso delle sue opere non sarà difficile perdersi letteralmente nella visione di una singola (grande o piccola, monofacciale o bifacciale) tessera. Felici sono anche le titolazioni delle personali: la già citata "Proteggere il tempo" rimanda all'utilizzo di materiali protettivi come pluriball, polistirolo o reti. Ma non è il materiale in sé che ha importanza, come ricorda Angela Vettese l'arte contemporanea "si fa con tutto", ma è l'abbraccio protettivo che conta, il tentativo dell'artista di bloccare nella tessera (spesso con una colata di resina ricca di fascino) il mistero del tempo, un mistero ancora più acuto dopo i recenti approdi della fisica.


Ho voluto parlarvi di questo perché non solo l'artista è un vero e proprio brand name collocato nei mercati internazionali (come ricorda anche Francesco Poli nel suo Il sistema dell'arte contemporanea uscito per Laterza e come un giro alla fiera di Basilea potrebbe confermare), ma le stesse opere di un artista hanno una rilevanza di naming tutta da approfondire. Non sono certo io a scoprirlo, basta pensare a René Magritte, Jean Hans Arp e a tanti altri. A me interessava solo parlarvi di un artista che merita attenzione e farvi capire perché anche lui può rientrare in un blog dedicato al naming.

lunedì 4 luglio 2011

Google+ o Google Plus. Sul naming del nuovo social di Mountain View

Appena nato e già sotto i riflettori. Google+ è il nuovo servizio di social networking del motore di ricerca padrone del mercato. Banalizzando, ma neanche tanto, è lo strumento con cui Google tenta di sferrare il proprio attacco al social network per antonomasia, Facebook. Google è un continuo laboratorio e le varie applicazioni che offre possono essere studiate anche per il naming (Chrome il browser, Picasa il servizio di archiviazione di immagini, Gmail la posta, Goggles - che assonanza! - l'applicazione nata per Android che consente di ottenere informazioni su un landmark, un libro, un prodotto semplicemente scattando una fotografia, una copertina o un barcode).

Il caso di Google+ è curioso perché qui il colosso sembra optare per un naming ridotto ai minimi termini, talmente sintetico che potrebbe persino generare qualche confusione: come parleremo di questo strumento? Quanti già scrivono Google Plus in lettere per esteso? Qualcuno in Italia lo chiamerà Google Più? Chi lo interpreterà inizialmente come un upgrade del motore di ricerca?

Sono periodi di grande fermento. Facebook annuncia una contromossa in questi giorni. Il quartetto dell'innovazione (Amazon, Apple, Facebook e Google) sta decisamente contribuendo a ridisegnare il web. Se è vero che dal naming si può evincere e intravedere spesso una strategia, è fin troppo chiaro che su Google+, dopo il non esaltante tentativo costituito da Google Buzz, Google sta puntando davvero molto. Sta puntanto talmente tanto in Google+ (o Plus?) che l'identità visiva del nuovo social network coincide con quella del motore di ricerca stesso, con la semplice aggiunta di un simbolo "+" di un grigio assai neutro. Come a dire: questa volta sul social networking mi gioco la faccia. Vedremo cosa accadrà, certo non sarà facile inserirsi in un contesto dove Facebook è davvero un cliente scomodissimo.

Ancora non sappiamo se, a lungo termine, questa operazione di naming si rivelerà vincente. I dubbi potrebbero nascere dal fatto che Google utilizza il proprio brand name (globalmente noto per la capacità di organizzazione e strutturazione della conoscenza a livello planetario) per attaccare il mercato del social networking (banalizzando, anche qui, per fare brand stretching) nel quale non è ancora riconosciuto e dove incontrerà Facebook, un gigante che, come anticipato, non starà certo a guardare. Se ci limitiamo ad analizzare questa operazione di naming sembra che Google stia davvero apprestandosi a cambiare pelle e ad entrare in una nuova fase della sua storia.