mercoledì 28 settembre 2011

Ottanio e il nome del colore nella moda

Quello dei colori è un tema interessantissimo, trasversale tra i popoli e le epoche. Ci sono evidenti implicazioni culturali, simboliche, iconografiche e storiche. Anche nell'ambito della comunicazione è nota la loro centralità, soprattutto in termini di posizionamento mentale: Ferrari, Marlboro e Coca-Cola sono marche "inesorabilmente" rosse, anche se sfogliando un brand manual di Ferrari potremmo scoprire che anche il nero e il giallo rientrano ugualmente nella visual identity del brand di Maranello. Parallelamente, un altro tema affascinante è quello del naming dei colori. Se uno guarda la List of colors di Wikipedia potrebbe meravigliarsi di quante gradazioni siano state codificate con un nome preciso. Esistono anche i dizionari dei colori, come The Oxford Color Dictionary & Thesaurus, dove magari potremmo apprendere l'origine del colore "rosso veneziano", quando è stata usata per la prima volta questa espressione.

Già da qualche anno si sente parlare di "ottanio" in ambito moda. Anche il "tortora" ha conosciuto la sua stagione. Non saprei dirvi il riferimento Pantone corretto. Assomiglia anche a quel colore teal che trovavamo spesso come desktop neutro di Windows negli anni Novanta (ve lo ricordate, che brutto! Forse però era riposante per gli occhi...). Una tinta tra il verde e il blu, con un tocco vintage. Non so se però anni addietro venisse usato il nome ottanio per definirlo. Mi chiedo quando è stato codificato il nome ottanio, questo colore da "spingere" e da vendere con un sapore neanche tanto vago di idrocarburi. Chissà se è venduto come colore "grintoso"? Ci vorrebbe un articolo dedicato all'escalation dell'aggettivo "grintoso" nel mondo degli addetti moda... ci avete fatto caso? Come se tutti fossimo degli smidollati ai quali solo un capo "grintoso" può offrire ancora sostegno vertebrale!

Non è irrilevante che il colore di moda abbia un nome ricercato, una sorta di color-brand. Per chi è dentro queste cose, per gli addetti e per gli/le addicted, dire "quest'anno va di moda il blu" è assai diverso da dire "quest'anno va di moda l'ottanio". Sembra quasi che l'ottanio sia diventato una specie di sovrabrand trasversale che le varie case di moda possono applicare alle proprie collezioni. Battezzare un colore non è quindi un atto secondario. Lo sapeva bene Yves Klein quando diede a quella particolare tonalità di blu oltremare il proprio nome. Ancora una volta atterriamo nei territori del naming nell'arte, e non è un caso visto che moda, design e arte oggi costituiscono assieme un sistema coeso in fase di sviluppo.

domenica 25 settembre 2011

Morbistenza. Un neologismo per la carta igienica

La lingua della pubblicità ama le esagerazioni. Talvolta queste esagerazioni sono delle evidenti bugie. I rotoloni Regina "che non finiscono mai" sono un esempio. Sono bugie che ormai accettiamo sovrappensiero, rientrano nelle regole di quella lingua giocosa e sempre sopra le righe. Sempre la carta igienica ci ha abituati a soluzioni pubblicitarie inaspettate, come nello spot con l'Alighieri che scrive su rotoloni fintamente inesauribili la sua veramente inesauribile Commedia (Foxy). Sono questi due esempi di comunicazione in cui ciò che conta è il binomio dato da lunghezza e durata. Come a dire: niente panico, non ti troverai alla fine della tua rilassante seduta a imprecare perché il rotolo è finito. 


Oggi la comunicazione pubblicitaria attorno alla carta igienica cambia direzione, e lascia da parte almeno per ora quei benefit a favore di una nuova caratteristica, reperibile stavolta nei rotoli Tempo. Parliamo della morbistenza, evidente neologismo e parola-macedonia data da morbidezza e resistenza. Al marketing di questa azienda probabilmente hanno fatto tesoro di frasi sulla falsariga di quelle lanciate da una celebrità (non ricordo bene quale) che sosteneva che giunta in Italia aveva iniziato ad apprezzare la carta igienica più morbida (vado a memoria). L'esperimento linguistico, che può far sorridere, è interessante perché ricorre al naming per una caratteristica del prodotto e non tanto per il product name: da quello che ho scorto nello spot, "morbistenza" è registrato o in via di registrazione, come una sorta di pay-off, una specie di "Just do it". Si tratta comunque di una scelta che sposta l'asse dalla comunicazione dalla lunghezza-durata dei rotoli (posizionamento forse esaurito perché troppo ricercato) a quello della morbidezza (unita alla resistenza). Sembra quasi che "resistenza" sia un'appendice aggiunta a "morbidezza" per scongiurare imbarazzanti incomprensioni della morbidezza (uno infatti potrebbe pensare che una carta troppo morbida diventi pericolosa).

Al di là dell'ironia, la carta igienica è un prodotto serio sul quale potrebbe essere stimolante fare comunicazione. Un prodotto trasversale, di rapido consumo, con evidenti implicazioni ambientali. Chi ha letto il bellissimo libro di Helga Schneider Il rogo di Berlino sa cosa significa non avere nemmeno un foglio di giornale a disposizione per sostituire la carta e, in una città progressivamente annichilita com'era Berlino alla fine della guerra, non avere la possibilità di ricorrere a rimedi naturali o di altro tipo per supplire alla sua assenza. Oggi invece potete scegliere tra la lunghezza-durata e la morbistenza. Le quotazioni delle carte igieniche profumate mi sembrano invece in caduta e, se volete una opinione, credo che sia giusto così.

giovedì 22 settembre 2011

R.e.m. (o Rem). I think I can remember your name.

Si sono sciolti i R.e.m., la notizia è di ieri. Come molti in Italia li avevo scoperti con Out of time (1991) e poi avevo percorso a ritroso la loro discografia fino a Murmur (1983) e Chronic Town (1982), consolidandola con l'indimenticabile Automatic for the people (1992), non perdendoli più di vista fino all'ultimo non convincente Collapse into now (2011). Lasciamo perdere quel senso forse stupido di dispiacere che prova qualsiasi fan al momento dello scioglimento dei propri beniamini, perché questo sono stati per chi scrive i R.e.m. per tanti anni. Non erano necessariamente i loro cd quelli che stavano più ore nel lettore, anzi, ma era il ricordo della scoperta della loro musica, le sorprese dei vecchi e nuovi album, l'idea che furono "galeotti" per la formazione del mio gruppo (a proposito, si chiamava Apryl, un bel naming del batterista) con il quale ho suonato per anni, tra l'altro musiche lontanissime dalle loro.

Ricordo quell'estate in cui divorai il libro di Stefano Magnani sulla loro storia. Dedicava più di una pagina alla scelta del nome della band: "Cans of piss", "Negro Wives" o "Twisted Kites", il nome con il quale si esibirono al primo concerto. Il loro successo è il motivo per riflettere sul naming delle band, ovvero il band naming (c'è solo una "r" di meno!). Un nome corto (come nel caso degli U2) ha portato molta fortuna e credo che si possa dire che il pop degli anni Novanta sia formato in larga parte da Rem e U2 (pur nelle diversità di scelte e atteggiamento). Solo recentemente, in epoca di scrittura digitale, era sorto il problema dei puntini tra le lettere del nome (ci vanno? Non ci vanno?). Pensando al nome, è normale che uno possa chiedersi: che cosa sarebbe successo se Michael Stipe non avesse scelto a caso, sfogliando un dizionario, quella sigla breve così centrata con il loro pop onirico, con liriche "alla maniera" di William Borroughs? Se avessero mantenuto uno di quei nomi poi scartati, le cose sarebbero andate come sono effettivamente andate? Sono quelle domande senza risposta che ogni tanto l'interesse per il naming porta a porgersi. Ma chissà se ha senso continuare in questi pensieri...

I nomi delle band sono a tutti gli effetti brand name. Ci sono nomi che hanno fatto epoca (pensiamo Rolling Stones o a Iron Maiden in ambito heavy metal). Sempre nell'ambito metal, magari restringendo la visuale al death metal, è interessante notare come i nomi abbiano solitamente una caratteristica me-too: le band cercano nomi simili, con rimandi e connotazioni macabre. Il post-rock ha portato una nuova generazione di nomi (pensate ai Tortoise o agli Shellac). Sarebbe interessante analizzare la storia della musica rock dal punto di vista dei nomi delle band. Si scoprirebbero dei filoni interessanti. La curiosità dei miei amati Rem è che alla fine, a differenza dei gruppi metal e dei loro iconici loghi, non si sono mai adagiati su un logo e, di album in album, abbiamo trovato quelle tre lettere scritte nei modi più disparati. In ambito italiano, tra i miei preferiti ci sono i Massimo Volume. Il loro nome pare derivi da quanto si dicevano durante le prove: "Massimo Volume!", invitando ad alzare a palla gli amplificatori. Ci ho sempre letto anche un senso di "volume" come "spazio occupato" e la citazione da Fuoco fatuo di Drieu La Rochelle contenuta in Lungo i bordi potrebbe avallare questa ipotesi. Scusate, ogni tanto un post autobiografico e nostalgico.

mercoledì 21 settembre 2011

L.H.O.O.Q., quel genio del naming di Duchamp

"Elle a chaud au cul", questo il pun che sta dietro uno dei più curiosi casi di naming dell'arte. Nel 1919 quel genio ante-Photoshop di Marcel Duchamp mette i baffi alla Gioconda. La stringa di lettere, così difficile da mandare a memoria, sembra stia appunto per "Elle a chaud au cul" (Lei ha caldo al culo, lei è eccitata).

Non è l'unico caso in cui Duchamp si distingue per un'operazione di naming sopraffina. L'orinatoio si intitola infatti "Fontana" e oggi in tanti lo citano parlando di orinatoio-fontana.

Già ci è capitato di parlare di naming e arte, sia con le opere di Ivan De Menis ma anche ricordando gli acronimi, spesso infelici, che hanno dato il nome ai nuovi musei d'arte contemporanea della penisola. Ci capiterà ancora di tornare sull'arte e sui suoi rapporti con il naming. Quanti di noi riflettono soprattutto (o comunque molto) sul titolo di un'opera d'arte? E cosa sarebbe oggi il movimento dell'arte povera se un critico come Germano Celant non avesse trovato la felice etichetta, definizione (o più semplicemente brand name?) per quel gruppo di artisti che proprio in questi giorni sta facendo molto discutere per le non poche mostre internazionali che gli verranno dedicate nei prossimi mesi?

venerdì 16 settembre 2011

Un naming a portata di tastiera: Kijiji

Nell'epoca dei media digitali, può trovare spazio anche un nuovo tipo di naming che definirei "a portata di tastiera". La velocità di digitazione è una fattore chiave, anche su Google (non a caso è nato Google Instant), ed ecco allora che il brand consociato di eBay per i piccoli annunci prende il nome di Kijiji. Kijiji è una parola della lingua Swahili che significa villaggio.

Al di là delle considerazioni che si possono fare sulle lettere che la compongono e sul loro prestarsi a effetti grafici particolari, va notata la posizione ravvicinata delle tre lettere k, i e j sulla tastiera del vostro pc, come si vede sotto.

Il nome è molto ficcante da un punto di vista semantico, dal momento che gli annunci sono proposti divisi per "comunità urbana" (città). Le perplessità potrebbero sorgere dalla pronuncia. Interessante è inoltre il ricorso allo swahili, una lingua alla quale gli esperti di naming guardano sempre con una certa curiosità. Ma, come dicevo, si tratta di un nome per il web velocemente digitabile, un plus di certo non secondario.

Una curiosità in chiusura: l'agenzia che ne ha curato il naming è una delle più interessanti tra quelle con base operativa negli Usa, Catchword. Il loro sito merita una visita.

mercoledì 14 settembre 2011

Nomen Italia, specialisti di brand naming e servizi affini

Interviste a chi il naming lo fa #6

Veniamo ora alla più consolidata realtà di naming in Italia. Mi riferisco a Nomen Italia, fondata sul finire degli anni Ottanta da Béatrice Ferrari. Ora, dopo il suo distacco già ricordato nella prima intervista di questa serie di “interviste a chi il naming lo fa”, l’agenzia milanese del network internazionale Nomen porta avanti un operato contraddistinto da know-how largamente stratificato e multisettoriale, come si evince dalle risposte del duo composto da Armelle Sabba e Gianluca Billo.



AC: Nomen... omen. Con un nome così si capisce che Nomen è l'incipit del naming professionale in Italia. Dal vostro osservatorio privilegiato, quale sguardo e percezione avete dello sviluppo dei servizi di naming nel nostro paese? Grazie al network Nomen avrete inoltre la possibilità di un continuo scambio e confronto con altre situazioni internazionali. Emergono specificità nazionali o ci sono dei trend globali?
AS: Direi Alberto che, oltre al nome che dice tanto di noi in Italia (nei paesi anglossassoni è tutta un'altra storia!), Nomen è la pietra miliare del naming. Siamo nati 22 anni fa in Italia e nessuno pensava che potesse esistere una società dedicata all’invenzione dei nomi per i prodotti. Ci dicevano "ma la gente vi paga per questo?" Oggi, è diverso. Le medie e grandi aziende sono più preparate al naming; per forza, non riescono più a trovare nomi liberi!
Il naming oggi lo fanno tutti: dai singoli copywriter, che puntano tutto sul proprio “genio creativo”, alle agenzie di comunicazione che sentono l’esigenza di trattare la marca in tutti i suoi aspetti, talvolta senza le competenze necessarie per affrontare i rischi di un nome sbagliato, ai free lance che vendono creatività a poco prezzo su Internet. Per inventare una parola non ci vuole molto, certo, forse bastano anche 5 minuti. Ma spesso, troppo spesso quella parola non basta, per qualche motivo non funziona, e allora bisogna inventarne un’altra, e poi un’altra, e poi un’altra… e di questo passo, senza criteri chiari di riferimento, si può andare avanti all’infinito, e non trovare mai una soluzione.
La nostra percezione è che tuttora però le aziende ci provano sempre in interno e quando vedono che non riescono ad arrivare a un risultato idoneo, cercano davvero i professionisti.
Per quanto riguarda i trend, direi che sono piuttosto globali. Con Internet, non ti puoi più permettere di rimanere locale. Ovviamente ci sono delle specificità all'interno dei vari paesi, o dei servizi che sono quasi fondamentali in alcuni paesi e in altri meno. Per esempio, in Cina o in Giappone, tutti i nomi che presenti devono aver passato una fase di verifica sul target. In Italia non è cosi ovvio.

AC: Parlando di servizi di naming, mi ha sempre colpito l'aspetto dei servizi "affini" al naming offerti dalle agenzie specializzate (ricerche linguistiche, ricerche di marketing, analisi di portafoglio-nomi ecc.). Potresti brevemente approfondire questo aspetto?
AS: Oggi, credo che per avere qualcosa in più in un panorama sempre più ampio, bisogna poter vendere altri servizi collegati al naming, senza allontanarsi dalla nostra essenza e dal nostro posizionamento. Siamo gli unici ad avere un network cosi internazionale da permettere di fare ricerche linguistiche e culturali in tutti i paesi del mondo. I nostri corrispondenti sono formati da più di 20 anni all'aspetto linguistico dei nomi. In un mercato sempre più globale non ci si può dimenticare di verificare la leggibilità, il significato che un nome può avere nei vari paesi ma anche il suo vissuto culturale. A parte i vari tipi di ricerche linguistiche, abbiamo sviluppato notevolmente le ricerche marketing: dalla verifica del potenziale dei nomi sui consumatori, all'immagine che comunica un brand in un certo contesto, all'analisi di un settore merceologico. Ultimamente, è nata all'interno del nostro gruppo una società specializzata nelle ricerche quantitative in modo da poter rassicurare i nostri interlocutori che cercano sempre di più la prova di un risultato attraverso i numeri. L'altro campo dove è stato fatto tanto per offrire un servizio sempre più chiave in mano è la parte legale: una maggiore consulenza sui marchi, una vera tutela del portafoglio dei marchi. Come vedi, anche se il naming potrebbe sembrare un elemento minimo nel mondo del marketing e della comunicazione, i servizi e le discipline sono numerosi.

AC: C'è un settore che sforna nomi in gran quantità e che appare abbastanza "difficile" per la sua specificità. Mi riferisco al settore farmaceutico nel quale Nomen opera da anni. Potresti illustrare ai lettori del blog le dinamiche più frequenti di questo settore?
GB: Ti presento uno scenario tuttora molto diffuso: l’azienda farmaceutica sviluppa una nuova molecola, progetta un nuovo farmaco e inventa un nome ad hoc. Ma in tanti casi il nome inventato dall’azienda non arriva al mercato perché viene bloccato prima dagli organismi preposti al controllo (il Ministero della Sanità in Italia, l’FDA negli USA, per esempio). E nonostante i controlli, da una recente ricerca dell’ FDA si evince che negli USA circa un milione e trecento mila persone sono state vittima di errori nel campo della medicina, e più del 12% di questi errori è stato generato dalla confusione di nomi.
Il nome del farmaco viene rifiutato se esprime o richiama i benefici che il farmaco apporta; ma anche se il nome ne magnifica gli effetti; e naturalmente se il nome è simile a qualche altro nome di farmaco esistente, per non generare confusione nel paziente e nel medico; e ancora, il nome commerciale non può richiamare troppo chiaramente il nome generico della molecola, che è di patrimonio comune. Si può dire che il nome buono, forte e giusto per un prodotto farmaceutico è un nome studiato soprattutto secondo parametri fonetici (il suono) e morfologici (la forma, la lunghezza), più che secondo parametri semantici (il significato del nome). Meno un nome ha un significato riconoscibile, più è facile che il nome superi il vaglio del Ministero o dell’organismo preposto al controllo.
Le restrizioni sono molte, come vedi. A queste si devono aggiungere il diritto dei marchi, che tutela la novità, la distintività e l’ingannevolezza del nome, e l’aspetto linguistico e culturale (come il nome viene letto e pronunciato nei vari paesi di commercializzazione del prodotto, l’assenza di evocazioni negative). Perché in generale, il lancio di un nuovo farmaco implica anni e anni di ricerche e di investimenti, con l’obiettivo di creare un prodotto da vendere in molti paesi. Per darti un’idea di budget, secondo alcune stime americane non è raro che le aziende farmaceutiche investano tra i 200 e i 500 mila dollari per la creazione e la selezione di un nome per un nuovo farmaco. Noccioline, in confronto agli investimenti stimati intorno agli 800 milioni di dollari per un intero percorso, dalla concezione del farmaco alla sua vendita in farmacia. Ecco perché un nome per il mercato farmaceutico deve essere studiato con grande attenzione, ed ecco perché un buon nome può fare la differenza.

AC: Se c'è un prodotto che sembra fatto appositamente per il naming, questo è il profumo. Nomen ha una notevole esperienza in questo. Potresti raccontare qualche caso interessante? E inoltre, in un post precedente, riflettevo su come l'industria del vino (almeno in Italia) sia ancora lontana dal naming pur essendo, a ben guardare, legata in larga parte alle dinamiche di quella dei profumi (canali di vendita esclusivi, una certa rigidità di prezzo, attenzione al packaging, enfasi sulle essenze). Qual è la tua personale visione sul prodotto "vino" in rapporto al naming?
GB: Nomen lavora spesso nel settore dei profumi, sia in Italia che all’estero. In Italia le aziende che producono i profumi sono poche, e i marchi rimasti completamente italiani ancora meno. Un esempio interessante è la griffe Salvatore Ferragamo, con cui collaboriamo da anni. La casa di moda ha al suo interno una società interamente dedicata ai profumi (Salvatore Ferragamo Parfums), con sede a Firenze.
Ferragamo Parfums ha scelto la strada del nome italiano con i profumi Incanto e Attimo, venduti in Europa, negli USA e in Asia. Ma la scelta della lingua italiana non è una strada facile: è necessario trovare nomi che si possano leggere ovunque, e che non richiamino parole sconvenienti. Il Giappone per esempio, apparentemente così lontano da noi dal punto di vista linguistico, ha nel suo linguaggio quotidiano numerose parole identiche per sonorità a quelle italiane, ma con significati completamente diversi. Un esempio per tutti: un nome breve e positivo come AMA, terza persona del verbo amare in Italia, senza distinzioni di genere maschile o femminile, in Giappone suona come una parola che significa “monaca buddista”, ma anche come un’altra parola che significa “subacquea”, e infine come una parola che significa “donna di facili costumi”… Sembra incredibile, no?
Parliamo ora di vino: non basta un nome innovativo, dirompente, distintivo per creare una storia di successo, ma certamente un buon nome è un buon punto di partenza. In Italia il naming dei vini segue spesso criteri tradizionali o imitativi (nomi che suonano come altri nomi di vini che hanno avuto successo), oppure si vedono nomi stravaganti che parlano soprattutto al cuore di chi il vino lo ha fatto (perché vengono dalla sua storia personale) ma che dicono poco al mercato. Difficilmente in Italia nascono nomi paragonabili alla forza dirompente di Yellow Tail, una linea di vini (Australiani) di grande successo mondiale (e tuttavia di qualità medio-bassa), o di Red Bicyclette, una linea di vini prodotta in Francia e venduta negli Stati Uniti (c’è una gustosa storia di inganni e figuracce dietro a questo marchio, ti invito a curiosare). Forse in Italia il vino è ancora percepito da molti come un prodotto “tradizionale”, che non può permettersi stravaganze, pena il rifiuto del mercato. In Australia, nuovo mondo per il vino, tutto è possibile…

AC: Per finire, un nome che avresti voluto lanciare tu?
GB: IKEA, senza dubbio. Breve, facile, di suono gradevole, indimenticabile. Con un nome così si può vendere qualsiasi cosa, e loro non si sono lasciati scappare l’opportunità!

lunedì 12 settembre 2011

Tradurre 9.11 con 11.9

I giornalisti italiani ormai parlano della tragedia e degli attentati datati 11 settembre 2001 come di 11.9. Probabilmente, una decina d'anni fa non avrebbero fatto questa traduzione calco di "Nine Eleven" ricorrendo alle sole cifre. Evidentemente hanno colto qualcosa nell'essenzialità magnetica di quelle due cifre separate spesso da un punto. E si sono adeguati, ovviamente adattando il naming di questa notizia al sistema di datazione italiano.

Non so cosa ne pensate. Personalmente non lo trovo un gran segnale di salute per la lingua del giornalismo italiano. 9.11 è una sequenza di cifre che ha un significato ben preciso nella lingua inglese e nell'immaginario internazionale. L'inversione delle cifre, con il mantenimento dell'impostazione numerica anglosassone, dà origine ad un naming di notizia infelice. Preferisco quei giornali che hanno scritto "11 settembre": o importiamo un naming di notizia così com'è o lo traduciamo (con tutto quello che la traduzione comporta). Questo il mio pensiero.

venerdì 9 settembre 2011

Francesca Melli, la brandangel per non cadere nelle trappole del naming

Interviste a chi il naming lo fa #5

L'insieme di persone e soggetti che si occupano di naming può essere molto eterogeneo. Credo che questa serie di "interviste a chi il naming lo fa" stia cercando di illustrare questo assunto. Se da un lato ciò che emerge è una crescente consapevolezza attorno alle problematiche e specificità del naming, del rigore che richiede e della necessità di trasmettere questo rigore ai clienti che comprano servizi di naming, dall'altro si percepisce anche che i progetti di naming hanno dimensioni e aspirazioni assai diverse.
Francesca Melli, oltre a essere impegnata in progetti di naming, insegna pure questa materia allo IED di Milano. Grazie a lei possiamo approfondire nuovi aspetti metodologici e anche qualche gustoso aneddoto!




AC: Come hai iniziato a occuparti di naming? Quali i primi progetti, le difficoltà più ricorrenti e gli entusiasmi?
FM: Ho iniziato a occuparmi di naming circa 10 anni fa, prendendo parte a un brain storming per trovare il nome a una nuova società. Sono rimasta affascinata dalla metodologia seguita per individuare il nome più coerente al posizionamento della newco e capace di trasmetterne i valori. Durante l'intera sessione il flusso creativo non ha mai perso di vista le esigenze strategiche del progetto, senza per questo risultare ingabbiato o meno spontaneo. Ho così scoperto che questa disciplina, che unisce creatività a strategia, mi piaceva e ho iniziato ad approfondire il tema e a partecipare a tutti i progetti di naming dell'agenzia per cui lavoravo. Da allora non ho più smesso e ho creato nomi per Mulino Bianco, Pavesi, Unilever, Telecom, Philip Morris, Fox e molti altri.
Le difficoltà di un progetto di naming? Far capire al Cliente che un nome non è superman - non può fare tutto da solo! - ma ha bisogno di essere integrato e sostenuto dalla grafica, da un eventuale payoff, da uno stile di comunicazione personalizzato... Ogni progetto è una piccola sfida che mi diverte e che mi spinge a cercare ed esplorare i significati, le combinazioni, gli idiomi.

AC: Potresti raccontare brevemente del metodo di naming che segui e applichi?
FM: Anche se il naming non è una scienza esatta, esiste un metodo che serve a non perdere di vista l'obiettivo del progetto. Parto sempre dai valori della marca e, individuando due o tre assi semantici coerenti a essi, lancio il processo creativo, che svolgo da sola o attraverso sessioni di brain-storming. Poi passo a una fase di scrematura in cui elimino i nomi più deboli, a una successiva fase di verifica che cancella i nomi già esistenti o simili nelle categorie merceologiche in cui il nuovo brand sarà registrato. Infine, compio un'analisi dei diversi livelli di significato di un nome, per verificare che non vi siano letture critiche. Preparo un documento con le proposte dei nomi che raccomando, che presento accompagnati da un breve rational che ne mette in evidenza i punti di forza rispetto al brand che dovranno "nominare" e a un'immagine che aiuta a visualizzare il portato del nome. Presento sempre personalmente tutte le volte che posso, per evitare che la semplice lettura del documento riduca tutto a un "mi piace/non mi piace", che non fornisce feedback utili, ma solo frustrazione!

AC: Insegni naming e scrittura creativa alla IED di Milano. Questi due aspetti dell'insegnamento hanno o possono avere interessanti punti di contatto? Ci sono degli aspetti dell'insegnamento del naming che sono degni di nota (reazioni degli studenti, interessi particolari)?
FM: In questi 3 anni ho notato che gli studenti del MasterBrand dello IED sono sempre più interessati al naming e riescono a far loro la metodologia in pochissimo tempo. Insieme facciamo anche molta pratica e questo li diverte e sollecita il loro spirito creativo. È molto bello quando un ragazzo o una ragazza che pensano di non essere affatto creativi, riescono a entrare nel meccanismo della generazione dei nomi e scoprono di essere perfettamente in grado di elaborare proposte coerenti, accattivanti e vincenti. Il naming e la scrittura creativa hanno molto punti di contatto, entrambi servono a dar voce alle marche, toccando sia le corde razionali sia quelle emotive del consumatore ed entrando in sintonia con le sue attese.

AC: Domanda di rito: quali le tue creature che ricordi con maggior soddisfazione e perché?
FM: Una delle mie case history preferite è la genesi del nome "PattiChiari", creato per ABI (Associazione Banche Italiane) e in uso presso tutte le banche italiane come brand che riunisce i servizi caratterizzati da alti standard di trasparenza ed efficienza. Si trattava di una gara tra agenzie blasonate e le aspettative erano altissime. La prima presentazione a Roma era andata bene, ma nessuna delle agenzie era riuscita a trovare il nome perfetto, così ci fu chiesta una seconda presentazione. Abbandonando il linguaggio tipico delle banche, un po' freddo e impersonale, puntammo tutto su un nome forte e un po' fuori dagli schemi. Al termine della presentazione la sala riunioni era stranamente silenziosa, facce imperscrutabili non permettevano di capire com'era andata. Perplessi e un po' inquieti salimmo in taxi per tornare in aeroporto, rassegnati ad attendere giorni prima di avere notizie dal Cliente. Mentre passavamo i controlli di sicurezza di Fiumicino, arrivò la telefonata: avevamo vinto la gara perché avevamo saputo osare con un nome che rompeva con il linguaggio tipico delle banche e riusciva a mandare un segnale forte ai clienti. In quel momento gli unici a non essere contenti erano i poliziotti al metal detector, che ci invitarono a non bloccare la fila e a smettere di lanciare esclamazioni di giubilo!

mercoledì 7 settembre 2011

Vimeo e le molte ragioni di un (buon) nome

Se si parla di sistemi di condivisione video il nome "top of mind" risulterà probabilmente Youtube. C'è tuttavia un'alternativa che si sta distinguendo per la chiarezza del progetto. Mi riferisco ovviamente a Vimeo. Una chiarezza progettuale che appare già tutta iscritta nel felice naming Vimeo, che apprendiamo essere creazione del cofondatore Jake Lodwick. Per quali ragioni il nome Vimeo risulta particolarmente felice?

Ha un rimando immediato anche se non restrittivo al proprio "settore di riferimento" e alla parola "Video", c'è solo una "fatale" lettera di differenza, la "m" al posto della "d". Si presenta inoltre come anagramma di "Movie". Curioso vero? Presenta poi la particella -me- al centro e qui possiamo addirittura vederci un segnale di forte differenza rispetto a Youtube (me vs. You?). Questo fatto ha ancora più risonanza se ricordiamo che su Vimeo trovano spazio soltanto video generati dall'utente e non potremo trovare uno spezzone di un film o di uno sceneggiato tv, cosa che invece accade su Youtube. Vimeo è stata infine la prima piattaforma di condivisione a supportare l'alta definizione.

Qualche dubbio o perplessità potrebbere sorgere sulla pronuncia. In assenza di uno spot chiarificatore (vi ricordatate quello della Lìabel, eccezionale forma di comunicazione pubblicitaria basata quasi interamente sulla corretta pronuncia del brand name?) credo di potervi dire che la "i" si pronuncia "i" e non "ai" e che la "e" si pronuncia "i". Vimio circa, con seconda "i" lunga e non Vaimio. Ecco, forse nella pronuncia l'unica perplessità che si potrebbe avere su un brand name davvero buono.

domenica 4 settembre 2011

Antonio Marazza e la naming expertise di Landor

Interviste a chi il naming lo fa #4

Con i suoi 17 uffici mondiali, Landor è tra i principali player nel settore della brand consultancy e opera su una pluralità di servizi e expertise che costituiscono quel particolare nucleo di attività che potremmo chiamare "i mestieri della marca", un insieme di attività in espansione, come capiamo dall'intervista.
Antonio Marazza, da anni alla direzione dell'ufficio milanese di Landor, si inserisce nella serie di "interviste a chi il naming lo fa" offrendo un'angolatura di visuale interessante e, per chi volesse, anche qualche punto meritevole di discussione.





AC: Il naming è solamente un versante dell'expertise di Landor. Con quale frequenza vi trovate a lavorare su progetti di naming? Avete notato delle differenze nel modo di chiedere (e di offrire) il servizio nell'ultima decina d'anni?
AM: Direi che in Italia capitano alcune opportunità ogni anno, sia di naming corporate che di prodotto, ma il dato va senz’altro moltiplicato per i 17 uffici mondiali di Landor. Infatti ormai è abbastanza raro che ci venga richiesto di individuare un nome applicabile solo a livello nazionale, per cui in realtà ci troviamo a lavorare quasi continuativamente su progetti di naming, indipendentemente da dove origina la richiesta del cliente.

AC: Tra chi si occupa di branding, i paper di Landor sono noti. Ci può riassumere i principali driver di sviluppo e le maggiori criticità che Landor riscontra nel settore del naming?
AM: Oggi il naming è diventato un problema più di tipo legale che creativo: i clienti devono essere pronti a scegliere nomi “insoliti” o a fronteggiare un eventuale percorso ad ostacoli legale prima di ottenere la possibilità di utilizzare il nome desiderato in tutta tranquillità. Invece ancora troppo spesso i clienti si innamorano di un nome – spesso “ovvio” quindi probabilmente già in uso - che non ha possibilità di essere protetto legalmente, o sottostimano i tempi e gli investimenti necessari per portare a conclusione un progetto di ricerca naming. Da parte nostra cerchiamo di preparare il cliente a queste dinamiche fin dall’inizio del processo.

AC: I maggiori brand degli ultimi anni vengono probabilmente dal web e da qui vengono probabilmente i casi più interessanti di naming. Credete che il web e i brand nati e sviluppati su web debbano in qualche modo portare ad una rielaborazione delle principali teorie sul naming? In altre parole, credete che il naming per il web introduca nuove specificità?
AM: Credo che la moda dei nomi tipo Yahoo o Google degli anni novanta sia un po’ passata, e che anche attività che girano su piattaforme esclusivamente digitali si siano dotate in tempi relativamente recenti di nomi molto validi che continuano ad appartenere ad un ambito più classico, descrittivo o aspirazionale, come Twitter, Facebook o Myspace. È solo cambiato il contesto, ma i buoni nomi rimangono buoni nomi.

AC: Se analizziamo ogni expertise di Landor e di altre brand consulting firms, quale secondo voi si sta maggiormente sviluppando negli ultimi anni (identity, packaging, insight, brand innovation ecc.)? Tra tutti questi, come "sta" il naming?
AM: Dal nostro punto di vista sono in grande sviluppo tutte le attività che contribuiscono a dare concretezza di business alle strategie di marca: creazione di esperienze che rappresentino la promessa di marca a 360°, attività di allineamento e coordinamento con altre discipline di comunicazione, allineamento della cultura aziendale ai valori della marca, identificazione delle implicazioni operative di una determinata strategia di marca: i clienti hanno bisogno di affiancare al rigore delle strategie e alla creatività risultati e concretezza. Ma ci sarà sempre bisogni di nomi, che rappresentano per noi un eccellente entry point per costruire una relazione solida con i clienti.

sabato 3 settembre 2011

Santal B.A., fare naming e branding con quanto già c'è

Un produttore di succhi di frutta può scrivere sulla confezione "Bassa acidità" per esteso e trattare questa caratteristica come un plus del prodotto. Allo stesso tempo può decidere di sintetizzare e soprattutto enfatizzare questa caratteristica del succo con una sigla "B.A." che conferisce una nuova denominazione al prodotto, o comunque una sigla che si inserisce all'interno della nuova configurazione nominale del prodotto.

Osservando l'immagine si capisce bene quel che sto suggerendo e la mossa interessante compiuta da Santal. A dire il vero c'è un precedente importante in un'altra azienda produttrice di succhi di frutta (e quindi, almeno per quel che riguarda il naming, si parla di una strategia me too) e mi riferisco a quel Yoga AQ che sembra rafforzare l'idea di un amore per le sigle nel settore degli alimentari, una passione prima forse sconosciuta e comparsa solo negli ultimi anni (pensiamo anche a LC1 di Nestlé). Sembra che il settore alimentare nel suo complesso, ricco storicamente di nomi abbondanti, pieni, comunicativi stia "emancipandosi" ricercando una prerogativa di settori più tecnici, dove le sigle sono di casa.

Trovo curioso questo aspetto, che forse è eccessivo definire già trend. Meglio parlare di una sorta di cross-fertilization del naming. Se le sigle comunicano ormai poco all'interno di un settore dato, ecco che trasportando la loro logica in un settore nuovo, precedentemente occupato da altre logiche di naming, riscoprono una nuova vita e una nuova funzione. Una ragione in più per studiare e analizzare il naming sempre all'interno di uno scenario competitivo specifico e per ribadire la rilevanza di quello che solitamente si definisce "contesto comunicativo".

giovedì 1 settembre 2011

"I Gettoni" vs. "La Vigna". Ancora sul naming di collane editoriali



«Propongo per titolo “I Gettoni” per i molti sensi che la parola può avere, di gettone per il telefono (e cioè di chiave per comunicare), di gettone per il gioco (e cioè con valore che varia da un minimo a un massimo) e di gettone come pollone, germoglio ecc. Poi suscita immagini metalliche e cittadine». (Lettera di Vittorini a Calvino del 25 febbraio 1951)


Ancora sul naming di quella particolare creatura che è una collana di un editore. Ancora scrittori come copywriter (D'Annunzio vi ricorda qualcosa?). Dopotutto l'argomento mi interessa e mi sta a cuore. Per giunta lo trovo anche degno di interesse e poco dibattuto.

Credo sia interessante questo caso de "I Gettoni", una collana... gettonatissima, tassello fondamentale nella storia dell'editoria made in Italy. Un vero e proprio brand. Forse Einaudi potrebbe addirittura pensare di ripescarlo? Il Vittorini copywriter sembra cavarsela benissimo (dopotutto conosciamo le sue straordinarie capacità di organizzatore) e le sue motivazioni per la denominazione caldeggiata non sono dissimili da quelle che potremmo addurre oggi, ovviamente mutatis mutandis. Nella lettera a Calvino veniamo a conoscere l'altro nome in gara: un manzoniano (?) "La Vigna". Credo abbia vinto il migliore. La storia e la fortuna della collana "I Gettoni" è cosa nota.