lunedì 23 dicembre 2013

Wiko, dalla Francia un nuovo nome tra i telefoni

Arriva dalla Francia un nuovo brand name nel mercato della telefonia cellulare. L'azienda è pronta infatti per arrivare con i propri prodotti, smartphone e feature phone, sul mercato italiano. I consumatori potranno presto sbizzarrirsi a testarne le caratteristiche. A noi non resta che valutare questo nuovo nome: Wiko. A primo impatto ricorda molto "wiki" e "Wikipedia". In un secondo momento, vengono in mente "wi-fi" per la prima sillaba del nome e qualcosa che potrebbe riguardare la "comunicazione" con la sillaba finale "ko". Il vero dubbio sorge sulla pronuncia, soprattutto sulla prima sillaba. Prenderà dalla pronuncia italiana di "Wikipedia" (ma la stessa Wikipedia presenta in italiano un potpourri di pronunce)? Prenderà dalla pronuncia della prima sillaba di "wi-fi"? Qual è l'univoca pronuncia del nome Wiko? In questi casi, per togliersi i dubbi di pronuncia, non resta che ascoltare la comunicazione ufficiale prodotta dall'azienda stessa.

lunedì 16 dicembre 2013

Intervista con Licia Corbolante. Di terminologia, naming e altre cose di lingua

Oggi torno a intervistare. Dopo la serie di colloqui con chi si occupa espressamente di naming risalente a qualche tempo fa, mi intrattengo ora con Licia Corbolante, che di mestiere fa la... terminologa. Posso immaginare facce strane. Eppure questo mestiere, che come scopriremo presenta delle affinità polpose con il naming, si trova normalmente in aziende come Microsoft, con cui la nostra intervistata ha collaborato a lungo. Nelle risposte che seguono potremo scoprire le intersezioni tra discipline solo apparentemente lontane come la linguistica e il marketing (del resto il nostro naming ne è un esempio abbastanza rilevante) e parleremo di naming con una persona che anche nel suo blog denominato Terminologia etc. dimostra un'attenzione costante e rara verso le più singolari - ma anche comuni - manifestazioni e bizzarrie delle lingue.
 
D: Chi ha imparato a conoscerti, magari anche dai commenti sempre ricchi che lasci in questo blog, si sarà chiesto dove nasce il tuo singolare lavoro e la tua singolare carriera che ti consente oggi di cogliere al volo aspetti linguistici importanti legati alla vita di ogni giorno. Ci racconti brevemente cosa hai studiato e le tue principali occupazioni sino a oggi?
R: Ho studiato traduzione alla SSLMIT di Trieste; subito dopo essermi laureata con una tesi sugli aspetti culturali della traduzione ho lavorato come lettrice e poi docente di traduzione nel dipartimento di italiano della University of Salford, in Inghilterra, dove mi sono specializzata in linguistica applicata e marketing. Dopo la parentesi inglese è incominciata una lunga carriera in Microsoft, nell’ambito della localizzazione (il processo di traduzione e adattamento di software e altri contenuti digitali per un mercato specifico); ho iniziato come Italian language specialist a Dublino, dove mi occupavo di tutti gli aspetti della qualità linguistica e “culturale” del prodotti. Dopo sei anni in Irlanda mi sono trasferita a Milano e mentre si evolvevano i processi di localizzazione, ho ampliato le mie competenze e sono diventata terminologa, un’attività che comporta estrazione terminologica in inglese (lingua 1) e in italiano (lingua 2), gestione e manutenzione di database terminologici con creazione di voci e definizioni e soprattutto un’intensa attività di ricerca in entrambe le lingue. Nel 2009 è terminata la mia collaborazione con Microsoft e da allora opero indipendentemente sia nell’ambito della localizzazione che anche in altri settori tecnici, sempre però con la coppia di lingue inglese e italiano.

D: Linguistica e marketing sembrano incrociare perfettamente nel naming. Eppure sono molti i punti in cui gli aspetti verbali e terminologici intercettano il marketing. Potresti approfondire quelli salienti?
R: Nel marketing vengono identificati i fattori che influenzano il comportamento del consumatore, ad esempio culturali, sociali, personali, demografici e psicologici, in modo da sviluppare le strategie più idonee al proprio mercato, che però non sempre sono adeguate anche in altri paesi o a livello globale. Gli esperti linguistici, tra cui traduttori e terminologi che operano in più lingue e hanno acquisito specifiche competenze interculturali, possono contribuire a definire modelli culturali di riferimento, fornire analisi sociolinguistiche e identificare gli aspetti verbali e visuali che influenzano preferenze, percezioni e aspettative per il prodotto nella loro cultura. La collaborazione tra esperti linguistici e interculturali e i responsabili del marketing consente di identificare le strategie per il prodotto in lingue e mercati diversi e di indicare le linee guida per l’adattamento e la presentazione, che includono esempi, convenzioni, stile, registro e scelte terminologiche, spesso molto diversi da una lingua all’altra.

D: "Terminologa". Sembra una brutta parola. Eppure si nasconde un lavoro che conduci con passione invidiabile. In che cosa consiste ora la tua carriera di terminologa indipendente, dopo la lunga parentesi in Microsoft?
R:Il terminologo si occupa delle attività di gestione e ricerca a cui ho accennato prima, nel mio caso anche in campi non strettamente informatici. Oltre a fornire diversi tipi di consulenze linguistiche, ho operato anche in un ambito lessicografico con la revisione delle voci di informatica del Dizionario inglese-italiano Ragazzini (Zanichelli), e faccio parte di un gruppo di lavoro UNI che recentemente ha pubblicato una norma sulla scrittura professionale. Un aspetto del mio lavoro che ho potuto sviluppare in questi anni e che mi dà molta soddisfazione è la formazione terminologica a livello aziendale, universitario e anche in istituzioni europee. Queste attività si riflettono nel mio blog, nato per condividere considerazioni, esperienze e competenze in ambito terminologico, un settore in cui per l’italiano non c’è molta divulgazione, se non a livello accademico; spesso propongo esempi tratti dai media, da pubblicità o altro materiale disponibile online che sono una rielaborazione di esempi reali osservati o affrontati in progetti terminologici. 

D: Andiamo diretti al naming. Si tratta di qualcosa che segui per ovvi motivi professionali e collaterali oppure il naming ha investito parentesi importanti della tua attività passata o attuale?
R: Ho cominciato a occuparmi di naming durante alcune attività del ciclo di vita del software e di servizi online, in inglese conosciute con vari nomi tra cui cultural review, cultural customization assessment, cultural check, globalization review. Sono valutazioni di immagini, messaggi non verbali e nomi di prodotti o servizi destinati a rimanere in inglese in tutti i mercati e che vengono analizzati per verificare che siano accettabili in mercati diversi e che lo stesso tipo di comunicazione del prodotto originale sia mantenuto senza dover intervenire con traduzioni o adattamento. Non si tratta quindi di proporre nomi ma di identificare quelli che sono improponibili in contesti diversi da quelli in cui sono nati, come poteva essere l’ormai famigerato Inkulator. In Microsoft avevo sviluppato e coordinato il sistema di valutazione per tutte le lingue, poi presentato anche in alcuni convegni, e ho appena consegnato un mio contributo intitolato Cultural Competencies in Globalization per un volume sulla localizzazione curato da un’università statunitense.
Continuo a occuparmi di un aspetto particolare dei nomi in inglese, il punto di vista della seconda lingua o E2, rilevante in tutti i contesti dove l’inglese è usato come una lingua franca o veicolare, senza che sia la madrelingua né di chi produce né di chi consuma un prodotto o servizio. È uno scenario molto comune in Europa, un mercato per il quale anche le aziende italiane ricorrono spesso a nomi inglesi; in questo caso le analisi linguistiche, in collaborazione se necessario con colleghi di altre lingue, possono includere considerazioni sulla riconoscibilità delle parole, eventuali difficoltà di pronuncia e memorizzazione e associazioni o interpretazioni indesiderate causate da interferenze della propria lingua (nel mio blog ci sono vari esempi, tra cui s·nowhere o snow·here, una questione di E2? e Android KitKat).

D: C'è qualche naming che ti ha colpito negli ultimi tempi? Se sì, per quale motivo?
R: Non è nuovo e non ha a che fare con l’informatica o altre tecnologie, ma continua a piacermi molto Libelle, un cracker di Barilla. È facile da ricordare, suona molto gradevole ed è familiare, come se esistesse da sempre. Le associazioni sono tutte positive, in particolare vengono richiamati l’aggettivo bello e il sostantivo libellule, insetti eleganti e leggiadri (e forse, per chi conosce solo qualche parola di tedesco, anche la parola Liebe, “amore”?). Gli aspetti fonosimbolici sono evidenti: tutte le vocali sono anteriori e così possono suggerire sottigliezza e leggerezza. Il payoff Croccanti e leggere sottolinea la levità ma la accompagna con un aggettivo corposo che aggiunge gusto e sostanza.
Sempre in campo alimentare, ma per il motivo opposto e per divertimento, raccolgo segnalazioni di nomi di prodotti “italianeggianti” che risultano accattivanti solo all’estero, come ad esempio Flatizza, Pastachetti, Soffatelli e Pizzaghetti, per non citare i nomi di alcune varietà di caffè Nespresso e di alcune marche del supermercato LIDL.

D: In questo periodo avaro di lavoro, quali nuove interessanti figure professionali intravedi per chi intraprende un percorso che abbraccia linguistica, marketing e aspetti della traduzione?
R:Il periodo non è dei migliorie l’attenzione per la qualità linguistica ne risente, ma mi sembra che anche in Italia, seppure con notevole ritardo rispetto ad altri paesi come la Germania e la Svizzera, si cominci a capire l’importanza della gestione sistematica della terminologia, quindi potrebbero esserci sbocchi interessanti per aspiranti terminologi. Se però dovessi scegliere ora un percorso di studi, sarei meno attratta da una formazione linguistica tradizionale e preferirei invece discipline che uniscono tecnologia e lingua, come la linguistica computazionale, l’informatica umanistica o la linguistica forense, usata in attività investigative.

D: Vorrei concludere con qualche indicazione di approfondimento, oltre al tuo blog che ho ricordato. Ci puoi dare qualche consiglio di lettura (blog, riviste, libri, video)? Grazie.
R: Sono molti i libri interessanti ed è difficile scegliere, però tre titoli recenti che non dovrebbero mancare nella propria libreria sono il Dizionario di stile e scrittura di Marina Beltramo e Maria Teresa Nesci (solo su carta), il Dizionario Analogico della Lingua Italiana di Donata Feroldi ed Elena Dal Pra (carta e digitale) e Lavoro, dunque scrivo! di Luisa Carrada, un manuale di scrittura che si legge tutto d’un fiato (carta e digitale). Ci sono vari titoli utili anche tra i manualetti di linguistica dell’editore Carocci. E per i language geek, come mi sono vista descrivere io, l’Enciclopedia dell’Italiano Treccani (consultabile anche online, ma sfogliare le pagine è tutta un’altra cosa!).
Su Internet, sempre molto interessanti gli Speciali di lingua italiana del Portale Treccani; tra i blog linguistici italiani, escludendo quelli più noti di scrittura, comunicazione e traduzione, segnalo parole, del linguista Michele Cortelazzo, e un altro blog scoperto da poco che pare promettente, Non lo dire mai!, a cura di due studentesse di linguistica; mi incuriosiscono anchele sperimentazioni di Scritture brevi raccolte su Twitter da Francesca Chiusaroli. Sul naming ho imparato molto dal tuo blog, da quello di Linda Liguori e in inglese da Fritinancy.
Alla radio, imperdibile la trasmissione di Radio 3 La lingua batte, che ascolto in podcast.

lunedì 9 dicembre 2013

Renzi. Matteo, appunto.

Pensavo al successo di Matteo Renzi alle primarie del PD. L'uomo "nuovo", il politico che dà l'impressione del nuovo e su cui in molti ripongono la fiducia di un obamiano cambiamento, il sindaco che ha sbaragliato la concorrenza di Cuperlo e Civati ieri, presenta forse un alleato insospettabile nel proprio nome. Non trovate? Non tanto nel cognome. Intendo proprio nel suo nome: Matteo. Pensateci un po'. Quanti politici "vecchia guardia" vi vengono in mente che si chiamano Matteo? A me pochi. Magari ce ne sono molti, ma di primo acchito a me ne vengono in mente pochi per non dire nessuno. Vorrei trovare il modo di approfondire questa sensazione. Matteo è poi un nome "giovane". Se si potesse attingere agilmente alle statistiche, credo che tale nome rinvierebbe agli anni 70 e 80, gli anni delle generazioni X. Non ho mai conosciuto uomini di nome Matteo della generazione di mio padre e mia madre. So che esistono, ma a me non vengono in mente. Magari la sensazione di nuovo che questo candidato ha comunicato aveva un valido e insospettabile alleato persino nel nome proprio di persona Matteo e nella sua rarità nel panorama politico attuale. Pensate se Renzi si fosse chiamato Massimo. Non sarebbe stato il... massimo. Lui direbbe probabilmente che il nome proprio non conta e non fa la differenza e che contano le idee. Ma secondo me avrebbe funzionato meno. Potenza (e misteri) del naming...

martedì 3 dicembre 2013

Il nome del panino. McItaly, 100% italiano tranne che nel nome

Anche i panini sono brand. McDonald's ha fatto scuola, timidamente Autogrill con i suoi "Capri" e "Vesuvio" fa qualcosa di simile. E nel paese del furbo slow food il fast food deve adeguarsi. E dopo i panini griffati da Gualtiero Marchesi (insuccesso?), ecco il panino McItaly, presentato con il patrocinio del Ministero delle politiche agricole. Per chi l'ha visto, lo spot televisivo appare come un concentrato di stereotipi di italianità: il borgo bellino dell'Italia, aria aperta, vita in campagna, parlate locali, fieno girato con la forca e altre "bucolicità". Non sono contro e non boicotto i fast food e se proprio devo dirla tutta capisco quasi meglio le ragioni del fast rispetto a quelle dello slow. Ma non voglio aprire parentesi immense, che toccherebbero livelli e sensibilità plurime, interessi economici notevoli e tutto all'insegna del "food" che è davvero la sola cosa che ci interessa, in fondo, e che interessa davvero ogni animale. Dico solo che in tempi ostili per l'Italia, la famosa "dieta mediterranea", se esiste ancora, andrebbe quasi messa a bilancio come voce in attivo e andrebbe riconosciuta quantomeno ad un livello europeo, da quei paesi dove il consumo di carne è notevole. Ultimamente, dopo l'azione del cinema, anche gli organi di stampa internazionali, forse con tacito assenso dell'OMS, hanno iniziato a prendere di mira tale consumo massiccio per scovare le falle degli odierni sistemi di allevamento (uso di farmaci, inquinamento, impatto ambientale). Insomma, questa dieta andrebbe riconosciuta nel suo valore "economico" globale e non imbalsamata dentro pratiche simil slow food. Tutto qui.

Ma torniamo al nome del panino: McItaly. Forse l'unica cosa che avrebbe potuto e dovuto fare il Ministero è opporsi, o almeno storcere il naso, davanti a una denominazione del genere. McItaly è il classico naming di multinazionale alla Nestlè o Danone, con un prefisso posto a garanzia (in questo caso il prefisso Mc-). Il nome interpreta al meglio il motto "think globally, act locally" fatto proprio da una multinazionale dell'alimentazione, ma in realtà si limita a brandizzare sotto il proprio cappello nientemeno che un intero paese-brand, che tra l'altro in questi anni presenta notevoli criticità e pochi asset favorevoli (uno è appunto quello del "food"). Da un punto di vista di naming questo nome pare azzeccato, sembra posizionare abbastanza bene la "promessa" del prodotto 100% italiano. Eppure, a ben vedere, siamo arrivati al paradosso del panino 100% italiano, tranne che nel nome. Segno che l'anima di questo panino non è qui. I "Vesuvio" e i "Capri" di Autogrill, coi loro timidi nomi geografici, rischiano di apparire più italiani, anche se magari sono confezionati con prosciutti di importazione. Una multinazionale dovrebbe stare molto attenta a non vanificare gli sforzi e gli investimenti di comunicazione. E visto che anche il naming è comunicazione, nel nome McItaly a mio avviso risiede un errore strategico non trascurabile.

lunedì 25 novembre 2013

Renaming di testate: International Herald Tribune "rechristened" International New York Times

Circa un mese fa l’International Herald Tribune, la versione internazionale del New York Times, ha cambiato nome in International New York Times. Non è la prima volta che questo accade. Il giornale infatti ha cambiato più molte volte nel corso della sua storia che dura da 126 anni. L'operazione, nota già da mesi e di cui si può leggere qui, dimostra una cosa tutto sommato abbastanza semplice: anche i giornali sono brand e cercano pertanto di concentrare, anziché disperdere, il loro valore di marche, a partire dal nome, adottando una strategia globale di naming semplificata. In questo processo molto peso avrà avuto la rinnovata vita digitale dei mezzi di informazione e quindi la loro percezione globale come brand internazionali. Ragionamenti del genere sono già abbastanza trasparenti nelle dichiarazioni di Mark Thompson, riportate nel succitato link: "“The digital revolution has turned The New York Times from being a great American newspaper to becoming one of the world’s best-known news providers. We want to exploit that opportunity.” Ecco allora perché questo sfruttamento di posizione e di nuove opportunità passa anche per l'adozione di nome unico, univoco. Quanti lettori europei dell’International Herald Tribune sapevano che si trattava di un'emanazione del NYT? Ora è lampante. E forse sarà ancora più facile raggiungere nuovi lettori, nuovi abbonati. Da questa storia ricaviamo un assunto abbastanza semplice: non sempre occuparsi di naming significa stravolgere e fare "cose nuove", ma significa anche togliere complessità, ridurre, semplificare e, in fin dei conti, a volte, uniformare.

lunedì 18 novembre 2013

"Star in famiglia": ancora sull'utilizzo del nome in comunicazione

Si legge nella pagina Wikipedia dedicata all'azienda: "È stata fondata da Regolo Fossati il 19 giugno 1948 a Muggiò con il nome di STAR Stabilimenti Alimentari Riuniti S.r.l. Star, in inglese stella è anche la traduzione del nome della sua consorte, Stella Pogliani". Svelato l'arcano. Un nome si può creare o, come nel caso dei pubblicitari che hanno lavorato al nuovo spot del ragù che recentemente intercettato, ce lo si può trovare già pronto. Ne ho già scritto la volta scorsa parlando di conte.it: il nome può essere ripreso apertamente e trovare nuovi sensi nella comunicazione. Lo stesso "Star" allora passa da acronimo a traduzione di "stella" in inglese (chissà se in tanti decenni di storia è mai stato usato in questa accezione) a infinito del verbo "stare" (troncato). Di lì il nuovo pay-off che si legge nel video dello spot che inserisco qui sotto dedicato all'altro cavallo di battaglia dell'azienda: "Star in famiglia". Come detto più volte - e come non si stancava di scrivere Jean-Noël Kapferer - il nome di marca si può davvero "gestire".



lunedì 11 novembre 2013

Il caso conte.it: sull'utilizzo del naming in comunicazione

L'altra sera vedevo lo spot di conte.it, l'assicurazione online del gruppo gallese Admiral, con sede a Cardiff. Il settore in cui opera conte.it è senza dubbio in crescita (Linear ad esempio si è distinta, anche in termini di comunicazione, negli ultimi anni) e questo trend ascendente costituisce un successo ampiamente preventivabile, quantomeno se pensiamo alle generazioni avvezze agli acquisti online e che non intendono perdere un'ora o più per una pratica noiosissima come il pagamento dell'assicurazione, magari davanti ad un addetto/a alla riscossione del premio non particolarmente simpatico/a. Ho trovato azzeccata la strategia che pare star dietro la comunicazione di questo operatore del settore. Si parte con un nome di dominio di sole 5 lettere (e per chi fa business online un dominio di 5 lettere vale oro!), un nome che tra l'altro si può leggere sia per esteso, "conte", sia separato, "con-te" (entrambe accezioni positive). Per la campagna pubblicitaria in Tv si sono lasciati ispirare dalla parola "conte" e difatti il protagonista è un simpatico e improbabile conte "all'antica" con parruccone che si spazzola in vasca e poi sta davanti a un monitor di pc dal design barocco-veneziano. Il testo dello spot è tutto giocato su parole come "conte, contento, canta, con te, conte.it". Insomma, mi è parso che una felice strategia abbia funzionato da collante tra naming (e il peculiare, ma sempre più frequente, caso di naming per un business online) e la strategia di comunicazione più ampiamente intesa. Anzi, il vero collante è il naming stesso. Non si deve mai dimenticare che un nome nuovo o un nome già dato possono essere impiegati con efficacia nella comunicazione, facendo sì che tutto converga verso un'unica direzione anziché verso la dispersione della comunicazione in mille rivoli. A costo di essere noioso ripeto che il nome si può gestire. In questo caso è chiaro (anche dal logo) che la pronuncia del nome è "con te" e non "conte", tuttavia si innesca il classico gioco della polisemia pubblicitaria. Prossimamente tornerò con altri esempi.


domenica 3 novembre 2013

Disney da Cars a Planes. Ma non si era sempre detto "guai al naming descrittivo"?

Sono brand fortissimi, eppure i loro nomi presi nella lingua d'origine sono comunissimi, al limite della banalità. Ovvio che nell'esportazione e nello sterminato merchandising che generano guadagnano quell'allure dell'anglicismo. L'eredità importante di Cars si sposta ora su un nuovo soggetto cinematografico di Disney, che del predecessore sembra prendere molto a livello di art. E sembra riprendere anche la strada battuta per il naming. Nome semplice, descrittivo, al plurale. Dalle auto agli aeroplani. Più facile di così. Questa prassi di uno dei più grandi brand della "old economy" sembra mettere qualche dubbio alla decisa esortazione degli esperti di naming, cioè quella di evitare nomi descrittivi e poco evocativi. Lo stesso web, con la sua mania delle parole-chiave e delle stringhe di ricerca, sta riportando a galla la "descrittività" dei nomi, fattore assai appetibile in una ricerca web. Restando a questo nuovo film Disney, ci sembra di stare davanti a un nuovo processo di alfabetizzazione motoristica. Prima conosci le auto che sono "cars", poi iniziamo a salire con gli aeroplani che sono "planes". Cars and Planes, non fa una piega...

sabato 26 ottobre 2013

Nome per comuni che si fondono

I toponimi contengono non di rado, come in una boccia di essenze, la poesia. Se ci pensate si tratta di una domanda affascinante: come e dove nasce il nome di un luogo? I nomi dei luoghi spesso sembrano sprigionare una poesia che si è depositata nei secoli, nei mutamenti e slittamenti di pronuncia, nei travisamenti e persino negli errori di trascrizione cartografica poi magari emendati (si pensi alle cartine austriache dell'Italia settentrionale, piene di errori di trascrizione fonetica, come nel caso della località dove abito, Salettuol, che per gli austriaci era diventata San Nichiol in onore di un santo molto popolare di là del fiume Piave). I poeti stessi più volte nei secoli si sono lasciati trascinare da questo fascino della toponomastica (penso a un poeta come Giorgio Caproni, tra gli altri, ma anche ad Andrea Zanzotto e a moltissimi altri). Ora, vuoi per la crisi, vuoi per una maggiore razionalizzazione delle risorse, si affaccia alla realtà italiana la prospettiva inquietante che i toponimi siano decisi con un atto amministrativo e magari approvati con un referendum. Provo un po' di orrore/terrore a pensare che sia la mente burocratico-amministrativa a pensare ai nuovi nomi di un comune allargato, risultato della fusione di due comune esistenti. L'unica creatività che queste menti possiedono è spesso legata alla stravaganza dei titoli delle ordinanze (in questo la fantasia leghista si è esercitata per decenni). Questo caso di "naming per un nuovo comune allargato" sembra riguardare le zone dove ho vissuto a lungo, il comune di Villorba per la precisione, che dovrebbe fondersi con il comune limitrofo di Povegliano. Per par condicio dirò anche che dovrebbe riguardare il comune di Povegliano che intende fondersi con il comune limitrofo di Villorba, così non s'arrabbia nessuno. Sono emersi alcuni nomi come Terralta Veneta e Glaura e già si litiga o si fanno le battutine ironiche, tipiche di quelli che la sanno lunga (sarebbe da preoccuparsi se non fosse così!). Il problema è che così si pensa di poter dare un nome a un comune allargato con la facilità e rapidità con cui si dà un nome "creativo" a uno dei tanti centri commerciali che hanno reso brutte queste zone, con una velocità pari a quella con cui questi "centri" sembrano ora sparire e ischeletrire il paesaggio (nel caso di uno dei due comuni siamo già alla fase due: cosa facciamo dei centri commerciali che chiudono?). A mio avviso non ci siamo. I nomi sono importanti. Parlavo di "centri commerciali" e pensate a quale grossolano ed esiziale errore urbanistico e di "naming" sia contenuto nell'adozione della parola "centro"...

Cari amministratori, lasciate allora i toponimi così come sono o se proprio serve un nome inventate un nomignolo convenzionale (per carità non un acronimo!) che serva solo alle scartoffie della burocrazia, non ai cartelli o al parlato/vissuto delle persone. O piuttosto, per quel che riguarda le pure esigenze amministrative, sceglietene uno soltanto tra i due contendenti, quello che avrà il "centro amministrativo" e l'altro si tenga senza incazzarsi il nome di frazione, che è molto meglio di veder cancellati due toponimi in un colpo solo dalla piatta creatività degli amministratori e da un nome balordo trovato in tutta fretta. Occorre essere tremendamente conservatori e per nulla "innovatori" in queste inedite operazioni di toponomastica dettate da ragioni puramente amministrative e contingenti. Altrimenti passa l'idea del toponimo "facile" e volubile, mutabile al capriccio. Pensiamo poi a eventuali future implicazioni politiche di questa prassi (non a caso le ultime sostanziose operazioni toponomastiche italiane risalgono al tempo del Fascismo, che pure in certi casi aveva necessità di nominare delle terre sottratte alle paludi). Pensate solo a quale goffo disastro potrebbe capitare se una simile "moda" di cambio di nomi prendesse piede tra gli amministratori italiani, i quali fanno spesso proprie le mode alla velocità della luce. Dopo averci tolto la terra da sotto i piedi ci toglierebbero pure il suono dei nomi da sotto la lingua. E tutto questo perché? A che pro? Perché un vigile deve poter esser condiviso da entrambi i territori e altre sinergie del genere? Le sinergie possono andar bene ma il cambio di nome non mi sembra un grande affare. Anche perché nulla vieta di pensare che domani Villorba possa essere inglobato da Treviso e magari Povegliano possa ripensarci e fondersi con un comune come Giavera... e allora cosa faremmo? Dovremmo disfare tutto un'altra volta come ormai facciamo coi centri commerciali? Per favore no. I tempi e le esigenze dell'amministrazione sono profondamente diversi dai tempi lunghi e pastosi della toponomastica. Mi auguro che la superbia dei piccoli e talvolta napoleonici amministratori non prenda il sopravvento e che in caso di difficoltà chiedano piuttosto consiglio ai poeti, i quali in certi casi vedono molto più indietro (e quindi anche molto più avanti) di una certa fetta di storici locali. Quest'ultimi, nei casi peggiori, non aspettavano altro che momenti come questo per essere interpellati e pronunciarsi con cavilli storico-etimologici o addirittura territoriali e geografici che ormai lasciano il tempo che trovano. Esiste, anche se forse sempre meno, la storia locale di un luogo, ma non possono e non dovrebbero più esistere gli storici soltanto "locali". Sono una contraddizione in termini e spesso diventano creature tirate per la giacchetta dagli amministratori al momento del bisogno, magari per fare il libro patinato di turno. Un valido studioso di storia locale è un valido storico tout court. Peccato ce ne siano pochissimi. E questo non significa che non debbano esistere studiosi di storia di un luogo, anzi. C'è però bisogno di un gran ripensamento attorno a chi pratica la "storia locale". La toponomastica per fortuna è molto più refrattaria delle nostre contingenti esigenze amministrative. E se proprio serve un nome nuovo, cari amministratori, cercate un nome davvero nuovo, che non provi a giustificarsi grossolanamente su una scia storica e che non dimentichi il suono di quelle parole che, con gli slittamenti fonici lenti di lumaca, hanno nominato quei luoghi fino a ieri, lasciando una bava di scia. Sarebbe l'unico modo per salvare, nel suono, anche la storia. Anche se resto convito che la cosa migliore sarebbe lasciare i toponimi così come stanno, lì dove stanno, non inventarsi troppi nomi nuovi e cambiare piuttosto, con maggiore urgenza, le nostre teste.

(Questo è il secondo capitolo dedicato alla toponomastica; un altro post si legge qui.)

domenica 20 ottobre 2013

La tassa "Tasi": che cosa penseranno i veneti di questo nome?

Ci sono sicuramente altre priorità ben più pressanti per il nostro governo, tuttavia penso che male non farebbe se si preoccupasse tre minuti in più prima di dare un nome a una nuova tassa (quello di nominare le tasse è un esercizio noto a chi amministra e la storia è piena di nomi di tasse e gabelle). Si capiscono e si accettano ormai diffusamente gli acronimi, che sono svelti e pratici da affibiare, quasi asettici, con quel loro suono "molto tecnico". Ma talvolta gli acronimi posso assumere dei significati, anche antipatici, e quello del "tax naming" è un esercizio del tutto particolare, con il quale si deve dare un nome ad un prodotto potenzialmente antipatico, anche se in fondo - e qui non parta la sassaiola - non era poi così matto chi parlava della "bellezza" delle tasse (si aprirebbe però una parentesi lunghissima e fuori tema).

Con il recente nome dato alla "TAssa sui Servizi Indivisibili", "Tasi", il governo sembra averla fatta un po' grossa. Per il contribuente veneto che parla dialetto "tasi" significa semplicemente "taci", imperativo che nel parlato è spesso associato proprio al verbo "pagare": "paga e tasi", ovvero "paga e taci", espressione spesso associata al pagare le tasse. Questo naming dimostra forse che, nonostante il petto in fuori di tanti politici veneti, leghisti e non, il peso che sanno far valere nelle scelte anche minime è sempre minore. Questa regione, per molti regno dell'evasione ma al contempo serbatoio fiscale importante, soprattutto al livello delle aziende, dimostra ancora una volta di farsi poco rispettare, anche in questo che è stato definito "valzer" o "scioglilingua" dei nuovi nomi delle tasse. D'accordo, si parla di un nome di una tassa, non è la fine del mondo. Ma sembra quasi la spia di un sistema geoculturale locale che non sa farsi ascoltare a livello nazionale (figuriamoci a livelli ancor più ampi). Immagino già l'ironia che questo nuovo nome solleverà. Chissà perché poi è passato questo acronimo. Nessuno ha detto semplicemente "No, guardate, meglio cambiare nome a questa tassa!", oppure "No, Tasi no, non funziona, in Veneto men che meno". O forse questo che appare come un piccolo errore di "tax naming" trova la sua spiegazione in alcuni versi del poeta Andrea Zanzotto: "Pace per voi e per me / buona gente senza più dialetto...".

martedì 15 ottobre 2013

Naming trends: Spotify, Shopify e la fortuna del suffisso -fy

Il naming non fa certo eccezione e come forme, colori oppure brand tones of voice presenta dei trend più o meno manifesti. Anche il naming ha insomma le sue "mode". Pensiamo soltanto alla fortuna della doppia "o" nel naming per l'online. Spotify ha recentemente compiuto cinque anni e ultimamente si è beccato l'anatema di David Byrne. Un altro nome recentemente in voga, anche se non così popolare come può essere un nome legato alla musica, è Shopify, la piattaforma di e-commerce che consente a persone e negozianti di partire con la vendita online con qualche semplice passaggio. I due nomi, assai assonanti, sembrano usciti dallo stesso calderone e sembrano insinuare il suffisso -fy. Ovviamente è presto per capire se ci sarà un seguito, ma in questo mondo così "virale", due nomi così vicini e già affermati sono abbastanza per iniziare a parlare di un nuovo "naming trend".

lunedì 7 ottobre 2013

Nutella con il tuo nome

"Il buongiorno ha un nuovo nome, il tuo", così suona il nuovo claim dello spot di Nutella. Un prodotto arcinoto che si pone forse il problema "dell'invecchiamento" del brand, così come altre storiche marche della nostra tavola e della nostra casa. Sembra allora che i "creativi" (perdonatemi ma non riesco a non virgolettare questa parola, memore di certi discorsi fatti al telefono con Andrea Zanzotto e relativi al suo impiego in ambito pubblicitario), con la storyboard dello spot e la copy strategy, abbiamo voluto dimostrare la compenetrazione tra il prodotto e la storia personale in un certo target generazionale e così facendo si è spianata la strada per il massimo di personalizzazione dei barattoli. Personalizzazione - da quel che ho capito - non significa che al supermercato troverete i barattoli col vostro nome, come avviene nei display di gadget nelle edicole degli aeroporti (ma vi chiamate Debora/Christian con o senza "h" e Erika oppure Erica?). Significa - mi par di aver capito - che c'è una meccanica che prevede la personalizzazione via web del barattolo, con annesso un ovvio portato di viralità della promozione, dello spot e del buzz attorno al brand e probabilmente anche un discreto portato di raccolta dati/business intelligence

Con questa operazione curiosa, già criticata per l'eccessiva vicinanza con quanto fatto da Coca-Cola, il brand arcinoto di casa Ferrero sembra disponibile a "toccare" e sostituire quanto di più prezioso ha, il proprio nome, per lasciar posto al vostro nome. La tradizionale funzione di garanzia del nome è qui svolta dal lettering e dal barattolo che rimangono identici (icone a loro volta). Curiosa è allora questa compenetrazione tra brand name e name del consumatore. Interessante operazione insomma, anche se faccio fatica a immaginarmi un successone proprio a causa della meccanica della personalizzazione, a quanto pare... macchinosa. Certo che in vista di qualche Nutella-party qualcuno può pensare di personalizzare il barattolone stile Nanni Moretti in Bianca col nome del festeggiato. In fondo, anche nelle feste di compleanno ci siamo americanizzati di brutto e se fino a qualche decennio fa non sapevamo cosa fossero, ora sono comparsi fischietti, trombette, berrettini conici in cartone, striscioni con evidente aggravio per... il sacco dell'immondizia.

(Dal mio punto di vista, un consiglio ai "creativi": io non riesco a mangiare Nutella a colazione. In tutti gli altri momenti della giornata sì, anni fa mi alzavo a mangiarla addirittura di notte, ma a colazione mai. Vedo che si insiste molto su questo "momento di consumo", anche nel claim. Siamo sicuri che la colazione sia il momento principe del consumo di Nutella? Probabilmente sì, ma forse potrebbero esserci sorprese...)

domenica 29 settembre 2013

Lenovo Yoga: nome interessante nato da pensiero laterale?

Se pensiamo allo yoga, credo che una delle prime cose che ci viene in mente sia la figura umana piegata e curvata nelle pose più strane, una sensazione di equilibrio, respiro, armonia. C'è probabilmente questo tipo di immagine e questo genere di suggestioni dietro il nome Yoga scelto da Lenovo per questo nuovissimo prodotto, definito come una "combinazione della produttività di un Ultrabook™ con l'intuitiva tecnologia touch-screen di un tablet, un prodotto agilmente convertibile in una delle quattro modalità disponibili (laptop, tablet, tenda e orizzontale)." Il prodotto è innovativo e meritava un naming innovativo (e questo non significa che prodotti meno innovativi meritino naming meno innovativi), che lo facesse spiccare dal grigiore di certi nomi del settore informatico. Esiste già una pagina Wikipedia sul prodotto che esordisce: "The Yoga 13 gets its name from its ability taken on various form factors due to its screen being mounted on a special two-way hinge". Tutto chiaro. Ma come è arrivato questo nome interessante e diverso? Probabilmente grazie a un procedimento di pensiero laterale. Ricordate Edward De Bono e i Sei cappelli per pensare? De Bono è passato alla storia per essere il teorico-guru del pensiero laterale anche se il pensiero laterale credo esistesse da molto prima di De Bono, forse dalla preistoria stessa, quando si iniziava a scheggiare le pietre per cacciare. Però De Bono, col pensiero laterale, ha costruito una sorta di castello (e credo anche discrete fortune). Nel mio studio sul naming pubblicato diversi anni fa da Cleup (vedi copertina del libro a lato) sostenevo che l'approccio "laterale" alla fase creativa del naming ha sempre dato interessanti risultati: si avvicina l'oggetto da nominare lateralmente e non frontalmente. Così, lateralmente, credo sia nato il nome Yoga, che oltre ad essere breve, facilmente ricordabile, universalmente noto e in grado di posizionare molto bene questo prodotto innovativo, rappresenta anche un nome ricco di connotati positivi e stimolanti. Andando ancor più dentro la storia delle parole, scopriremmo che "yoga" e "giogo" (da cui anche la parola "coniuge") hanno le stesse radici comuni. Se però "yoga" ha connotazioni positive, "giogo" è una parola che si è ricavata un solco di connotazioni nient'affatto positive. Anche queste derive diverse di parole nate vicine è un aspetto interessante delle lingue.

martedì 24 settembre 2013

Naming Stockazoo!

Gli errori - si sa - sono la parte divertente del naming, il quale a dire il vero è attività divertente nel suo complesso. Ecco, diciamo meglio che gli errori coi nomi sono la parte più divertente da raccontare, quella che fa notizia e fa sorridere. Si narra di errori epocali che diventano cristallizzate case studies o di errori minori, "peccati veniali" perdonabili, rimediabili o aggirabili. In certi casi quello che a noi può sembrare un errore potrebbe persino essere ricercato, oppure non essere così determinante per la vita di un prodotto e servizio. In effetti non credo che il caso di cui vi parlo sia pienamente ascrivibile alle fila degli "errori di naming". Le riflessioni qui contenute sono nate davanti a Stockazoo, uno dei tanti siti che danno la possibilità di scaricare foto o illustrazioni (gratuitamente). Esempi noti di siti che invece danno la possibilità di scaricare immagini royalty-free a pagamento sono Getty Images e iStockphotos. Proprio iStockphotos e siti con nome assonante mi interessano ora. Il nome Stockazoo nasce probabilmente attorno alla parola "stock", assai diffusa nei nomi di siti del genere, alla quale è stata aggiunta la parola "zoo", non prima però di aver collegato il tutto con una "a" nel mezzo. Per il pubblico italofono un naming irresistibile: Stockazoo di naming!

lunedì 16 settembre 2013

Origine del nome di marca Saucony

Mi ha sempre incuriosito il nome "Saucony", anche perché a lungo, come molti, ho avuto dubbi sulla sua pronuncia. Prima di tutto sciogliamo questi dubbi: sembra si pronunci "sock-a-knee", con accento sulla prima sillaba. Ed è curioso che in questa sorta di trascrizione fonetica rientrino "sock" e "knee", "calzino" e "ginocchio", due elementi importanti nel glossario di chi va a correre a piedi (non chiamateli "runner", per favore, è orribile, così come chiamare "running" l'andare a correre a piedi: è tremendo come l'angloaziendalese abbia investito il modo in cui parliamo delle cose che ci piace fare!). L'azienda, fondata negli Stati Uniti nel 1898 da un imprenditore di Kutztown (Pennsylvania), prende il suo nome dai nativi americani. Il significato di Saucony sembra rimandare a “mouth of a creek or river”. Saucony è proprio un torrente della Pensylvania, come potete evincere da questa pagina di Wikipedia. Lungo le sponde di questo torrente è stata fondata la prima fabbrica di Saucony. All'inizio produceva pantofole da scarti di tappeti. Negli anni Trenta furono aggiunti altri prodotti, come le scarpe sportive e i pattini da ghiaccio, poi abbandonati. Oggi, tra le marche di scarpe da corsa, Saucony è rimasta una di quelle più ancorate alla specializzazione.

lunedì 9 settembre 2013

Il "Sacro GRA" di Gianfranco Rosi: l'importanza dei titoli, altra faccia del naming

La notizia è freschissima: Gianfranco Rosi con il suo documentario Sacro GRA ha vinto il Leone d'Oro alla Mostra del cinema di Venezia. Mi pare un ottimo esempio di come il titolo di un film, caso di naming assai peculiare, possa rivelarsi particolarmente efficace. Non ho ancora visto questo documentario, ma c'è poco da dire: è incredibilmente affascinante il modo il cui una sigla come G.R.A. (Grande Raccordo Anulare, sigla familiare a chi gira in auto per Roma) è stata giocata in chiave inedita, con evidente riferimento al "sacro Graal". Inutile forse ricordare che la scelta di un titolo di un film, la sua traduzione (qualora il film sia straniero) o la scelta di lasciare un titolo non tradotto ha profondo valore e può divenire assai incisiva sulla ricezione del film e lasciare un segno indelebile nella storia della pellicola. Molto spesso il tema della titolazione dei film è lasciato alle interviste, agli spazi per le curiosità. Quasi fosse un aspetto da gossip e da backstage soltanto. Invece titolare un film è un'azione di peso, il vero naming del prodotto-film. Non sarebbe male parlarne con maggior frequenza, consapevolezza e attenzione.

martedì 3 settembre 2013

Inti di Nice: trasmettitori colorati per non litigare

Svariati anni fa ho lavorato qualche tempo per Nice, un'azienda di Oderzo (Treviso) del settore home automation. Ricordo che già allora mi capitava di cercare dei nomi (pur nel breve periodo in cui vi ho lavorato, devo aver lasciato qualche piccola eredità onomastica). L'azienda stessa aveva costruito la propria crescente reputazione con una cura maniacale del design e, non da ultimo, per un universo di nomi originale, soprattutto se paragonato alla concorrenza, la quale offriva/offre mediamente nomi aridi, difficilmente memorizzabili e che - con tutto il rispetto per gli uffici tecnici delle aziende - sembrano usciti da un ufficio tecnico e non dal reparto marketing e comunicazione. Una volta all'anno o due faccio un giro nel sito dell'azienda, la quale è ora quotata in borsa. E mi ha incuriosito il nome "Inti" dato a una nuova serie colorata di trasmettitori. Nice ha sempre puntato molto sui trasmettitori per rafforzare la propria immagine. Le campagne pubblicitarie sono un esempio, per chi le ha viste. I trasmettitori sono in effetti l'elemento mobile del product design e dell'immagine di marca: piccoli, portatili, simili a dei cellulari. Non che i lampeggianti o il braccio-motore dei cancelli automatici a battente non presentassero la stessa cura nel design, ma la realtà è che il trasmettitore diventa "testimonial" dell'azienda (in auto, al lavoro, in palestra). "Inti" è il nome di una nuova serie che si contraddistingue per il colore (evidente qui il meccanismo di contaminazione tra la moda e l'elettronica, che naturalmente rimanda anche al fenomeno delle cover per cellulari).

Soffermioci su "Inti". Mi sembra un nome curioso. Breve, fonosimbolicamente "piccolo" per l'apertura e la chiusura con la vocale "i", la "vocale piccola" e di sole 4 lettere (come Nice). Inti è il nome di una divinità inca, il dio del sole, ed è pure il nome di una valuta peruviana che ha avuto breve storia. Richiama concetti quali l'intimità (anche nell'inglese "intimacy" o nel francese "intimité"). A qualcuno potrebbe far persino venire in mente il gruppo degli Inti Illimani. Si tratta insomma di un nome-brand coerente con i valori d'uso dell'oggetto che s'appresta a nominare, qualcosa di personale, legato a un colore. Non a caso l'advertising dell'azienda suggerisce che grazie a "Inti" si finisce di litigare per il telecomando del cancello o del garage: ad ognuno il proprio colore.


lunedì 26 agosto 2013

Calfort Calgon e... Caco3

Se date un'occhiata a questo link scoprirete che lì si parla di una "nuova" forma di promozione messa in atto dall'agenzia Havas Médias. Nulla di nuovo sotto il sole, in realtà. Si ritorna all'intervista pubblicitaria per promuovere un prodotto. E lì si parla anche di Calgon, parola-nome già protagonista nelle passate cronache di naming, con il "mitico" Calfort, diventato poi per uniformità, anche in Italia, Calgon (la dicitura "Calfort" è tuttavia rimasta nelle confezioni in vendita in Italia, come si evince dalla foto sopra). Il rimando è al programma-format pubblicitario "Caco3", condotto in Francia da Stéphane Thébaut (sotto invece ho caricato un video tratto da La7 e Youtube, piattaforma dove già trovate pure la parodia di CaCO3). Non so come suoni ad un francese "CaCO3", che in realtà è la formula chimica del carbonato di calcio. Di certo, ad un orecchio italiano, sarebbe raccomandabile una traduzione del titolo del "programma", altrimenti le parodie potrebbero diventare ancor più massicce.

Il caso di Calgon-Calfort costituisce inoltre un interessante esempio di renaming operato con la massima prudenza e gradualità, proprio in virtù della notorietà raggiunta in passato dal brand "Calfort" nel mercato italiano.


lunedì 19 agosto 2013

Dal pancarrè al Pan Brioscè

Pancarrè è una di quelle parole che difficilmente si cerca nel dizionario. Si impara da piccoli, facendo toast o andando a far la spesa. Si tratta di un francesismo acquisito da tempo dalla lingua italiana (il mio dizionario, il Sabatini-Coletti, ne attesta l'uso già dal 1856) e deriva da pain carré. Il dizionario è attento a descriverne la pronuncia con l'accento acuto sulla "e", anche se la parola è scritta con accento grave sulla "e". Perché sono andato a vedermi questo lemma? Per associazione di pensieri con il Pan Brioscè Mulino Bianco, altro francesismo-calco che richiama naturalmente un genuino pan brioche e allo stesso tempo rimanda apertamente al più noto pancarrè (il pane in cassetta è confezionato a fette). Credo vada notata, in ottica di naming, anche la completa italianizzazione del "Brioscè": scompare "ch" a favore di una normale sillaba accentata "-scè". Sono interessanti queste operazioni di naming, anche a livello di riverberi sulla lingua in uso. Per quanto riguarda la strategia di Mulino Bianco, da sempre all'avanguardia nel naming, sin dal nome "Mulino Bianco" stesso, si può concludere che spesso questo brand di Barilla opta per denominazioni apparentemente innocue, che sembra rimandino ad una mera descrizione del prodotto. Pensiamo anche a Macine, Tarallucci o Pan di Stelle. In realtà, come si è potuto vedere, queste denominazioni quasi descrittive possono diventare a loro volta brand a tutto tondo, come è accaduto con "Pan di Stelle", che da "semplice" nome di biscotto si è trasformato a marca applicata ad una più ampia gamma di prodotti, in seguito ad una operazione di brand extension (o brand stretching).

venerdì 9 agosto 2013

Quando il nome è abbreviato. Due esempi con marche di scarpe

Quando si dice che il nome dovrebbe essere breve... Mi è capitato di pensare a questa esortazione-regola, assai frequente in ambito naming, soprattutto con riferimento all'estetica e alla cosmesi di un prodotto. Prendete ad esempio le scarpe per bambini, anche quelle per i bambini molto piccoli. E prendiamo due marche come Naturino o Balocchi. Entrambe abbreviano sulla scarpa con delle sigle, NTR nel caso di Naturino e BLC nel caso di Balocchi. Avrete presente che lo spazio per scrivere qualcosa sulla tomaia non è molto, a maggior ragione se si vuole mantenere una certa leggibilità e ancor più se parliamo di una scarpa a superficie ridotta (o bucata) come un sandalo. Metteteci inoltre la tendenza a riportare lettere in grande misura (la M di Merrell o la N di New Balance) ed ecco che il gioco (l'abbreviazione) è fatto. Chissà se queste scelte, nel lungo periodo, possono portare ad una sorta di rebranding. Nel settore in cui opero, ad esempio, si abbrevia comunemente Rollerblade (di solito nome che costituisce l'esempio principe del fenomeno di lessicalizzazione del nome di marca) in RB, e la stessa Reebok si è vista talvolta abbreviata in RBK. Quando l'abbreviazione di un nome finisce sul prodotto, in alcuni casi, forse, è già l'inizio di qualcosa di diverso da una semplice operazione di styling del prodotto.

lunedì 29 luglio 2013

I nomi degli oggetti astronomici e qualche parola sulla mitologia nel naming

La IAU (International Astronomical Union) ha i suoi bei grattacapi a nominare tutti gli oggetti astronomici continuamente scoperti. A volte la situazione non è forse dissimile da quella di un'azienda che vuole creare un nome per un nuovo yogurt. Non di rado si ricorre persino a dei sistemi di voto. Tanti sono gli oggetti scoperti che è difficile nominarli tutti senza correre il rischio di imbattersi in un doppione. E i doppioni, in una scienza che si definisca tale, non possono esistere, tanto più che una delle principali caratteristiche che insegnano relativamente al linguaggio scientifico è la corrispondenza univoca tra segno linguistico e referente. Senza scomodare Frege o Peirce, possiamo dire che sono questi argomenti abbastanza comuni, che di tanto in tanto rimbalzano anche sulle nostre pagine di cronaca scientifica o pseudoscientifica (si sa che purtroppo la scienza fa notizia tanto più bizzarra è o quanto più bizzarramente è raccontata). Recentemente, ad esempio, se n'è sentito parlare per le due "lune" di Plutone (si legga anche qui) nominate Cerbero e Stige. La mitologia, tra le altre cose, si conferma ancora una volta un bacino inesauribile per i nuovi nomi e questo dato di fatto appare trasversale: riguarda sia i prodotti che portano un nome come Hermès sia altri "prodotti" della ricerca scientifica. Potremmo condurre ricerche approfondite sul successo della mitologia in una storia trasversale del naming e forse riporterebbero tutte a quel comune serbatoio di pulsioni collettive che i miti antichi incarnavano e incarnano tuttora, in maniera analoga a quanto avviene con molti brand e anche con le proiezioni sulla volta celeste delle nostre conoscenze e scoperte.

lunedì 22 luglio 2013

Il nome di marca si può "gestire"

L'altra sera, vedendo lo spot Teletu, mi tornavano in mente alcune frasi di Jean-Noël Kapferer. Se la memoria non mi inganna, mi pare fosse in Strategic Brand Management: Creating and Sustaining Brand Equity Long Term che lo studioso delle marche sosteneva, con riferimento ai nostri nomi, che questi possono essere gestiti. In sostanza Kapferer in quel passo aveva pure un piglio tranquillizzante, della serie "se vi trovate con un nome che è un mezzo pasticcio, non vi preoccupate, potete illuminare alcuni aspetti e nasconderne altri". Non erano naturalmente queste le parole di Kapferer, ma il senso sì. Detto diversamente era come sostenere che un nome è sempre come un diamante, del quale potete scegliere quale lato mostrare (e naturalmente sceglierete il migliore). Ora, l'esempio di Teletu non è quel che si dice propriamente un nome-pasticcio, ma è un esempio di come con il logo e la voce dello spot possano evitare certe evocazioni da rotocalco settimanale dei programmi tv. Se io lo pronuncio "tele-tu" corro infatti questo rischio. Se invece con la pronuncia (e con il logo) lavoro in direzione di uno smarcamento del -tu finale, accentuato dallo stacco della congiunzione "e" centrale, faccio un'operazione che mette al centro il "tu" (tu cliente-utente), tra l'altro in maniera coerente con la copy strategy storica di Vodafone (proprietaria di questo marchio di telefonia fissa), che da tempo è incentrata attorno a "you" (Vodafone You, Power to you, ecc.).

lunedì 15 luglio 2013

Ancora sul naming di app: il caso di Sellf (c'è un po' di ALCE in questo nome)

"Sell better. Live more" afferma il pay-off della nuova app denominata Sellf. C'è un po' la zampona di ALCE in questo nome, visto che si tratta di un mio contributo dato al team che ha lavorato a questo progetto. Quando Miriam Bertoli, che conosco da qualche anno e che è stata coinvolta nel gruppo di lavoro incubato in H-Farm, mi ha contattato con estrema urgenza perché a pochi giorni dal lancio stavano ancora con un nome-pilota che non li convinceva del tutto, è accaduto tutto molto in fretta. Non c'era molto tempo per fare lunghe liste e sedute di creazione. Nei rapidi scambi, ad un certo punto, dopo aver compreso cosa "fa" e cosa "evita" questa nuova app che nel sito dedicato invita a dismettere il vecchio CRM aziendale, ho suggerito queste parole:

[...] tra i vari nomi avevo pensato a SELLF, con due L, ibrido di SELL e SELF, mi pareva rendesse l'universo (quello delle vendite) e l'idea di automatizzazione/autotraining. La F finale poi rendeva l'idea di qualcosa di leggero, quasi come un soffio. Rimaneva corto e memorabile e inattaccabile da spelling errati. 

Il nome ha forse suggerito anche un domain name .io: www.sellf.io. Non si tratta di un tipo di dominio per i novelli Narcisi, bensì, più semplicemente, del dominio British Indian Ocean. Ma in Italia può suggerire qualcosa di legato all'io, alle app, al mondo degli smart phones, ormai le principali protesi dell'io.

martedì 9 luglio 2013

Numeri per titolare. 100 colpi (di spazzola), 50 sfumature (di grigio) ecc...

Qualche tempo fa uscì un libretto interessante per Laterza. L'autrice, Carla Bazzanella, si occupava in quelle pagine del nostro rapporto coi numeri all'interno del linguaggio (Numeri per parlare. Da 'quattro chiacchiere' a 'grazie mille'). L'altro giorno, registrando l'avvento perentorio del nuovo romanzo "erotico" Rizzoli della pordenonese Irene Cao, pardon, della trilogia, Io ti guardo/Io ti sento/Io ti voglio, mi sono stupito che il titolo non fosse "25 e qualcosa". Dopo i 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire di Mellissa P. e le 50 sfumature di grigio della James mi sembrava il seguito più normale per titolare questo prodotto dal quale la casa editrice s'aspetta molto in termini di vendite. Ho toppato miseramente, me tapino. (Ah, leggetevi questa se vi capita.)

martedì 2 luglio 2013

Rassegne di vino e poesia con poca fantasia nei nomi

Concedetemi un piccolo consiglio per gli organizzatori delle molte rassegne legate al vino e alla poesia. Mi capita di frequentare soprattutto le seconde, ultimamente, ma è evidente che vivo in una zona ad alto tasso di rassegne legate al vino e intercetto innumerevoli locandine di rassegne dedicate soprattutto al Prosecco. In troppi casi registro un ricorso agli aggettivi "di-vino" e "di-versi" (nel secondo caso sono ammesse varianti legate sempre alla parola "versi"). Ormai si è quasi creato uno standard, che a mio modo di vedere rischia di essere banalizzante, oltremodo ripetitivo e stancante. Quindi anche poco distintivo. La cosa che gli organizzatori di queste rassegne spesso ignorano è che non sempre essere popolari, apparentemente chiari, didascalici e ripetitivi aiuta. Ci sono casi di rassegne con nomi assai più coraggiosi che hanno avuto molta fortuna. E qui, con il vino divino e i versi diversi, siamo davvero a rischio inflazione. Mi si obietterà che chi cerca vino e poesia non va troppo per il sottile e non bada troppo ai nomi scelti per le manifestazioni a questi dedicate. Accetto quest'opinione, senza però farla mia. E non sono affatto d'accordo.

lunedì 24 giugno 2013

Casi di renaming: Neurothon diventa Revert



Neurothon, l’Associazione no-profit diretta dal Prof. Angelo Luigi Vescovi, nata nel 2003 per finanziare, promuovere ed incentivare la ricerca sulle cellule staminali cerebrali ed avviare la sperimentazione clinica sull'uomo, cambia nome in Revert. Nome e identità sono state sviluppate da Landor Associates. Come si legge nella nota di Landor "La nuova identità è basata su un simbolo immediato e universale e su un nome semplice e comprensibile anche all’estero, che esprimono l’obiettivo fondamentale della ricerca: invertire l’esito drammaticamente negativo della malattia per riattivare, rigenerare, restaurare le funzioni neurologiche." “Revert è un nome forte perché è una vera “call to action”, un imperativo ad agire" spiega Paolo Insinga, Design Director sul progetto "Che tu sia un ricercatore o un sostenitore, Revert ti colpisce, ti muove. Non puoi ignorare il suo messaggio". 
Interessante capire il percorso che ha portato Landor al nome Revert. All'inizio ci si è allontanati dal terreno semanticamente ostico delle patologie, poi "sono stati valutati temi vicini al mondo delle cellule staminali, dei processi rigenerativi e del miglioramento della qualità della vita, ma tutti sono stati scartati perché poco differenzianti". Landor ha infine optato per il beneficio fondamentale a cui punta la ricerca, ovvero la possibilità di mettere in discussione, ‘revertire’ quindi, le patologie finora ritenute irreversibili.
Il nome è un augurio, dicevano i latini.

lunedì 17 giugno 2013

Qualche problema coi toponimi

Ho sempre pensato che un comune confinante con i due comuni dove finora ho abitato abbia qualche problema coi toponimi (oggi parlo di toponimi nel mio blog sul naming, anche perché in fondo c'è qualche aspetto "brandizzante", oltre che imbarazzante, in quello che ho notato nel tempo). Dapprima, anni fa, in epoca di incontrastato dominio leghista, l'amministrazione optò, con un'operazione che oggi aizzerebbe gli scudieri della spending review, per la sostituzione di cartelli non arrugginiti e non pencolanti con altri nuovi dall'indicazione toponomastica "bilingue". Erano altri tempi, in cui la speculazione-polluzione edilizia consentiva una certa leggerezza di spesa (oggi invece si narra diffusamente di certe scuole delle nostre zone che fanno fatica a trovare i soldi per la carta, sia quella dei fotocopiatori che quella igienica, oppure per tinteggiare e igienizzare le pareti). In sostanza furono sostituiti i cartelli in vista lungo la trafficata statale con dei cartelli riportanti le due versioni del toponimo, quella italiana e quella fantomatica dialettale. Se ben ricordo rimasero estranee all'operazione le due frazioni sperse in mezzo alla campagna, forse poco interessanti in termini di visibilità. Una delle due poi sembra non avere nemmeno una dicitura consolidata in dialetto. Insomma, pochi sono i dubbi sulla natura tutta propagandistica dell'operazione "identitaria". La realtà è che i nomi dialettali che apparirono sotto il nome in italiano erano alquanto discutibili, soprattutto nel caso di una frazione molto in vista in un segmento di statale. L'operazione insomma era discutibile non solo da un punto di vista etico, finanziario, sociale e soprattutto politico, ma pure da un punto di vista filologico e linguistico. Un gran peccato, se pensiamo che questo comune ha dato i natali a un gran filologo, maestro di Renato Serra, successore di Carducci e Pascoli a Bologna, sommo studioso del Ruzante, spesso ricordato strumentalmente dalle penne di certi storici locali e - guarda caso - autore di una nota intitolata Di alcuni nomi di paesi trevisani derivati da vicinatus (Bologna, Zanichelli, 1901), situazione nella quale ricade probabilmente anche il caso della succitata frazione molto in vista. Ma pazienza. Curioso però registrare come la dicitura dialettale scelta per questa frazione corrispondesse solo in parte con il parlato dei bar o dei panifici della piazza, dove potevi sentire pronunciato quel toponimo con un normalissimo troncamento finale in -del, o, più venezianeggiante, in -deo. Anche questa indecisione di fondo nella pronuncia poteva costituire un freno per gli amministratori, volenterosi di ostentare un bilinguismo da segnaletica stradale assai discutibile. Così non fu. E in fondo qui non siamo nel Friuli, dove il toponimo dialettale e quello italiano a volte si trovano a distanze notevoli; ricordo che comuni limitrofi a questo, con toponimi dialettali assai lontani dal nome italiano (e univoci, senza doppie pronunce), rimasero fortunatamente alla larga da simili operazioni. 

Ora i problemi toponomastici sembrano riproporsi con l'ennesimo, inventato "palio di contrade". Non si capisce bene se questo tipo di iniziative tenti di dare un'anima a un suolo devastato e abbruttito dalla succitata speculazione-polluzione edilizia. Se così è, mi pare che siamo lontanissimi. Sono apparsi allora nomi di "borghi" di pura fantasia a contraddistinguere strade, vie e quartieri, con gran dispendio di colori, gagliardetti e poco ecologici addobbi. Il tutto alimentato da un attivismo contradaiolo e da un dispendio di impegno, tempo e fervore che stride con la signora che talvolta incontro in ferramenta o in posta la quale mi passa inappellabilmente davanti perché ha da fare, ha fretta o - testuali parole - "la pentola sul fuoco". I nomi che queste "borgate" hanno scelto per sé non si erano mai registrati nel parlato delle persone, mai uditi in una normale chiacchierata al bar o in panificio e probabilmente fanno la loro comparsa effimera soltanto nei giorni di questa "festa". Presi singolarmente poi appaiono come delle "contraddizioni in termini". I problemi con la toponomastica persistono, il morbo può essere contagioso e arrivare ai comuni limitrofi. Non so ancora bene come leggere questi fenomeni. So che un po' mi fanno male e forse sono la spia di uno dei nostri tanti malesseri.

lunedì 10 giugno 2013

Muse, il nome del nuovo museo delle scienze di Trento

Manca poco più di un mese all'inaugurazione del nuovo museo delle scienze di Trento progettato da Renzo Piano. Il nome scelto? MUSE. Il sito è già in linea qui. Qui invece potete trovare il video-trailer. Il nome presenta almeno un paio di motivi di interesse. Il primo è semplice, direi semplicissimo: dalla parola "museo" è stata tolta la -o finale. Il secondo consiste nel fatto che, così facendo, si è data origine a una parola plurale di senso compiuto e, ancora una volta in ambito museale, a quello che nelle intenzioni vuole presentarsi come un acronimo (sembra ormai che non si possa battezzare un museo senza ricorrere ad un acronimo... in questo siamo molto filo-americani, molto filo-MOMA). L'acronimo, a dire il vero, è un po' "preso per i capelli", se leggiamo le maiuscole della spiegazione nel sito dell'APT di Trento (MUseo delle ScienzE). Più interessante, a mio avviso, soffermarsi sul fatto che il nome è dato dalla parola Museo senza la -o finale e che, da questa scelta, derivi il plurale di "musa". Anche se solo Urania poteva considerarsi musa "protoscientifica", credo che la vita e lo sviluppo delle scienze abbia molto da spartire con queste divinità greche. Per ritornare al nome, qualcuno potrebbe pensare che è questa una denominazione un po' troppo vicina al nome dell'altro museo (d'arte) di quella regione, il Museion di Bolzano. Chissà se è una scelta di naming voluta in ottica di sinergia interprovinciale.

Infine, pur non essendo il mio campo, noto una scelta singolare per il logo. Si è cercato di simulare la "piega" di un'ombra alla parete. Curioso. Ho avvertito come singolare anche l'orientamento del logo verso il basso, in diagonale. Credo che per la leggibilità non sia il massimo. Ma il lancio della nuova struttura sta avvenendo a dire il vero all'insegna di un marketing certo non convenzionale e lo si nota anche nella scelta dei colori "istituzionali", abbastanza innovativa. In bocca al lupo quindi a questo museo (avremmo proprio bisogno di un buon museo della scienza).

lunedì 3 giugno 2013

Too much "life" in verbal branding? Qualche considerazione sui casi di LG, Samsung e Panasonic

A chi passa in centrale a Milano non sfugge l'affissione gigante dedicata al nuovo Samsung Galaxy S4. Il payoff è "Life companion". Quando è arrivato il momento in cui quel poster - secondo la celebre vulgata di Seth Godin, l'autore di Permission Marketing e il fustigatore dell'interruption marketing - ha interrotto e intercettato la mia attenzione, mi sono detto che forse non c'è, almeno in tema di verbal branding, una grande originalità nel settore dell'elettronica di consumo, che pure è uno di quelli commercialmente più vivaci negli ultimi anni. Parlo di "verbal branding" forse per la prima volta con un post dedicato, ma si tratta di un argomento affine al naming. Il "verbal branding" è un servizio offerto dalle agenzie specializzate, spesso assieme ai servizi di naming. Con "verbal branding" ci riferisce infatti all'universo delle espressioni verbali che definiscono l'identità di marca, quindi il nome, il payoff, le headlines, le taglines ecc. Detto diversamente, tutto ciò che è parola nell'universo della marca. Sono ad esempio celebri (e fortunate) le guidelines di stile di Groupon e nulla vieta di ricondurle dentro un preciso programma di verbal branding. Il mio esercizio in centrale a Milano è stato allora abbastanza semplice e scolastico, se volete. Ho preso tre marchi leader (Samsung con Galaxy S4, LG e Panasonic) e ho ricercato i payoff più noti a questi collegati: "Life companion" per il primo, "Life's good" per LG e "Ideas for life" per Panasonic. Che non ci sia troppa "vita" in questo verbal branding?

lunedì 27 maggio 2013

Il renaming di Ppr in Kering

Si tratta di una notizia ormai largamente circolata: tra meno di un mese Ppr lascerà il posto al nome Kering. Il gruppo guidato da Francois-Henri Pinault adotta così il suo quinto nome a partire dal prossimo 18 giugno. Il nuovo logo è qui accantoLa mossa segna l’abbandono dell’attività di distribuzione nei prossimi mesi, per focalizzarsi invece su un unico business: abbigliamento e accessori attraverso marchi di lusso e sport lifestyle. In simili gruppi il renaming non è affatto raro, anzi. Laddove le holding o "conglomerati" cambiano spesso pelle in seguito a acquisizioni, fusioni o altre procedure, il renaming è all'ordine del giorno. "Karing" segna un elemento innovativo nella storia di naming del gruppo legato alla famiglia Pinault. Il termine-parola "Kering" rinvia infatti a “to care”, quindi a “prendersi cura”, ma pure a un termine bretone che significa “casa” e “luogo dove vivere”. E poi subentra anche l'attenzione per quello che abbiamo già definito il capitolo a parte del "brand naming in China", come si può evincere chiaramente da questo articolo assai dettagliato, e con evocazioni positive e quindi interessanti anche per mercati sempre più ambiti come quello indonesiano.