sabato 26 gennaio 2013

Il middle management cinese ovvero donne che cambiano continuamente nome

Che in questo blog si parli di nomi e di naming anche in senso esteso credo sia ormai chiaro, almeno a chi ci ritorna. E allora oggi divago e lascio stare prodotti, brand, aziende o servizi. E torno in Cina. Non sono soltanto gli artisti a scegliersi nomi altri, pseudonimi o nomi d'arte. Chi lavora a stretto contatto con fabbriche cinesi sa che il "middle management" di questi siti produttivi è per la stragrande maggioranza costituito da donne che cambiano il proprio nome quando si interfacciano con l'interlocutore occidentale. Conosco personalmente una ragazza che ha deciso di chiamarsi Rose soltanto quando si interfaccia col personale dell'azienda per la quale lavoro, mentre cambia nuovamente nome quando comunica con altre aziende occidentali. Qualche anno fa la condizione della donna nella "fabbrica del mondo" ebbe dei momenti di ribalta grazie al libro-inchiesta di Leslie T. Chang (libro tradotto in italiano col titolo di Operaie da Adelphi in una collana che - tanto per andar fuori dal seminato del naming - porta l'eloquente nome di "La collana dei casi"). Il libro è una lunga inchiesta-fotografia sulla realtà lavorativa della donna in Cina, concentrata esemplarmente nell'area di Dongguang. Se il libro è stato un caso per il successo che ha riscosso, per chi opera in un'azienda con produzione cinese il reportage della Chang non ha certo un effetto dirompente. Si tratta in fondo di cose note, che la Chang ha raccontato bene e forse tra i primi: i turni, gli orari inesistenti, le migrazioni continue, il macigno dello stress, la protesi comunicativa del cellulare come unico varco-feticcio verso il mondo "là fuori", la solitudine "metafisica" della fabbrica e del dormitorio in zone industriali profondamente diverse dalle nostre zone parrocchiali-industriali, l'inglese imparato a fatica come prima via di innalzamento dal livello di operaia ai successivi livelli di "middle management" (etichetta in cui si nasconde spesso l'operatività vera e propria di questi siti produttivi, in ruoli di grande responsabilità, quasi sempre più difficili e delicati dei ruoli operativi rivestiti da uomini). Insomma, chi per lavoro aveva già incontrato questa realtà della donna all'interno delle fabbriche cinesi (e non sto parlando di poche persone, credo) non può certo subire il fascino dell'esotismo o della scoperta sensazionale che - si badi bene - non appartiene alla Chang ma forse all'operazione editoriale planetaria di cui è stato oggetto il suo reportage (nonostante giustamente Adelphi, sin dalla quarta di copertina, provi a dirci che si tratta di una realtà molto più vicina di quel che pensiamo). Provate quindi a immaginare i nomi multipli che queste donne gestiscono. Non dev'essere facile e potrebbe costituire un elemento di ulteriore stress. Loro interpretano queste operazioni di naming su se stesse come un atto di cortesia verso i loro "clienti" occidentali, un modo per metterli ulteriormente a loro agio con nomi dalla pronuncia più agevole, spesso americanizzante (il cinema e lo spettacolo hanno ancora un certo peso sulla scelta di questi "nomi di lavoro" che seguono addirittura piccole mode). Finché si tratta di "identità digitali" siamo tutti abituati a distinguerne molte, ma quando ci si incontra queste persone in carne e ossa, magari alla fiera internazionale, nascono spesso delle situazioni fino a poco tempo fa impensabili. Chissà se un giorno saranno gli occidentali a inventarsi nomi alternativi come "atti di cortesia" verso popolazioni che abitano altri meridiani.

sabato 19 gennaio 2013

Sul naming di Škoda Citigo

L'altra sera ho intravisto lo spot della Škoda Citigo e l'occhio mi è caduto sul nome, su quali lettere si è scelto per un nome pronunciato come l'unione di "city+go". Premetto intanto che credo sia evidente la volontà della casa automobilistica di giocare a viso aperto la propria partita nella categoria delle city car, sin dal naming stesso, che sfiora, almeno nella prima parte, il naming della category stessa. Mi ha incuriosito la scelta di optare per una "i" e non per la "y". Se l'auto si fosse chiamata Citygo, come qualcuno poteva supporre, forse sarebbe stata troppa (almeno a livello visivo) la vicinanza con un nome di un'auto concorrente, la Toyota Aygo, proprio per il finale con le stesse tre lettere. Già inserendo una "i" al posto della "y" le cose cambiano notevolmente e così non sussiste più il pericolo di confondere i nomi Aygo e Citigo. Dopo lo spot mi è rimasta qualche perplessità, non certo sull'auto che probabilmente confermerà il buon momento della casa costruttrice di Mladá Boleslav, ma proprio sul naming della stessa. Sicuramente quando si acquista un'auto del genere è importante l'affidabilità e il prezzo contenuto che si paga per un'auto dalle dimensioni altrettanto contenute. In sostanza si bada al sodo. E su questo non entro nel merito, anche perché nel rapporto qualità-prezzo la casa è forse tra le marche più ben posizionate. Tuttavia mi sono anche detto che se il nome Citigo è in grado di posizionare, forse rischia di non emozionare o evocare (se non quegli scenari urbani affrontati con agilità di manovra e impliciti nelle dimensioni e nella carrozzeria dell'auto stessa). Allo stesso tempo, visto che suppongo che il naming sia stato valutato attentissimamente dall'azienda, ho concluso che quasi sicuramente un nome del genere dovesse servire a posizionare rapidamente un'auto in un segmento strategico precedentemente non presidiato dalla casa. A questo punto, se il naming risponde efficacemente a un'esigenza precisa, resta da chiederci soltanto della pronuncia. Qualcuno in Italia potrebbe leggere il nome proprio come si scrive, addirittura trasformando un nome da pronunciare tronco (anche se senza accento sulla "o") in una parola piana (Citìgo). La pronuncia corretta è invece suggerita dal già citato spot. Staremo a sentire se la grafia scelta per la parola-nome Citigo ingenererà anche pronunce non conformi.

(Un'altra parentesi che si potrebbe aprire è quella riguardante la fortuna del finale in -go in questa categoria di auto piccole. Pensiamo ad esempio anche a Renault Twingo o a Fiat che aveva pensato di chiamare la nuova Panda "Gingo". Come noto poi la casa di Torino fece marcia indietro e recuperò lo storico brand Panda.)

sabato 12 gennaio 2013

L'ispanismo "Movida" per il naming delle "pile degli italiani"

Tra le tante conseguenze dell'uso di lettori mp3 o altre "wearable technologies" c'è anche l'incremento del consumo di pile. Uno si aspetterebbe che allora una innovativa copy strategy si attestasse sui territori della durata (già da tempo però presidiati da Duracell), oppure sui terreni più attuali e pericolosamente modaioli dell'impatto ambientale. E invece no. L'altra sera mi ha incuriosito lo spot di quel ragazzo un po' intontito, probabilmente dall'ascolto di ciò che ha in cuffia, fermato per una sorta di intervista (tipo quelle che un tempo si facevano per il Dash). Il ragazzo si toglie gli auricolari e afferma di utilizzare "Movida", le quali vengono definite "le pile degli italiani". La trovo una copy strategy curiosa: l'italianità riferita al mondo delle pile... chi se la sarebbe mai aspettata? Ed è ancor più curioso ravvicinare questa copy strategy col brand naming, per molti aspetti azzeccato (se non altro per la coerenza tra lifestyle/universo di riferimento e prodotti alimentati a pile), che però sa di Spagna e spagnolo. Si crea quindi una sorta di strano cortocircuito tra questo nome che posiziona molto bene il prodotto nei territori della vita "sempre in movimento" e la strategia comunicativa insita nell'affermare "le pile degli italiani". In altre parole un ispanismo, anche se largamente attestato soprattutto nel linguaggio giovanile, per nominare le "pile degli italiani"! Weird...

sabato 5 gennaio 2013

Il naming di istituzioni culturali: il buon esempio del DOK di Delft

In più occasioni mi è capitato di parlare del naming di istituzioni culturali, argomento di attualità quando si pensa a un nuovo museo-brand, tanto per far un esempio. Si tratta di un argomento che dovrebbe stare a cuore ai manager della cultura nostrani, i quali si sono spesi spesso in nomi orripilanti. Il buon esempio che vorrei citare viene dall'Olanda. Si tratta della "biblioteca ispirazionale" DOK, il cui logo è riproposto qui a fianco. Gli acronimi non sono il massimo e sono pure sfortunatamente di moda. DOK tuttavia è un acronimo indovinato, per brevità, memorabilità, immediatezza. Sta per Discotheek, Openbare Bibliotheek e Kunstcentrum. Il nome presenta poi un evidente rimando a "dock", alla banchina/molo. Come dire... un nome che nasce con le idee chiare, con una semplicità che funzionerà da guida per qualsiasi tipo di iniziativa intrapresa all'interno delle coordinate di Discotheek, Openbare Bibliotheek e Kunstcentrum. Per chi volesse approfondire, qui il sito, anche in inglese. Un ottimo esempio di branding in ambito culturale. Per noi italiani, ossessionati dalla cultural heritage, un ottimo esempio a cui guardare.

(E buon anno a tutti i lettori del blog!)