giovedì 21 febbraio 2013

Papanaming

Presto si radunerà il conclave e sapremo chi succederà a Benedetto XVI. Avete mai pensato che anche diventare papa è una questione di naming? Dal conclave esce anche un nome per il nuovo papa, annunciato alla fine della celeberrima formula. Spesso la scelta del nome può avere dei significati più o meno manifesti. Tutto questo è comunemente inquadrato nell'etichetta di "nome pontificale". Rimando alla pagina di Wikipedia su questo argomento, dove si possono scoprire curiosità di questa "branca" peculiare del naming (inclusi alcuni errori di naming, soprattutto nella numerazione). Ricordo quando al liceo si scherzava con un amico sul fatto che i papi di nome Sisto si fossero fermati al quinto e che nessuno avesse pensato al nome di Sisto VI (Sisto Sesto) e forse, per qualche giorno, abbiamo persino vaneggiato di chiamar così il nostro neonato gruppo musicale! Proprio sul nome Sisto potete scoprire, sempre nella pagina di Wikipedia, alcune curiosità legate all'ambiguità tra Xystos che significa "liscio, levigato" e il prænomen (nome latino) Sextus che significa il "sesto nato". Sempre in quella pagina potete scoprire il nome più quotato (Giovanni) e i vari hapax, ovvero quei nomi che finora sono stati scelti da un papa soltanto. Le motivazioni che possono spingere un cardinale eletto a pontefice verso un dato "naming" sono molteplici. Curioso sarebbe che dopo Benedetto XVI e quel che si è detto sulla sua rinuncia fosse eletto un "Celestino VI".

La rinuncia di Joseph Aloisius Ratzinger offre poi lo spunto per riparlare di naming delle notizie. Quella della rinuncia del papa è stata davvero la notizia degli ultimi anni. Il settimanale Internazionale è uscito con l'abituale inserto speciale con la riproduzione delle prime pagine dei quotidiani del mondo. La breaking news era troppo grande. Ma come titolare una notizia così grande, sulla quale tutti si erano già buttati? E poi, come si può comportare nella titolazione un settimanale che, per definizione, arriva più tardi su una notizia dirompente come quella? Come potete evincere dalla copertina che ho ripreso sopra, con quell'abilità e arguzia di titolazione tipica di un quotidiano come Il Manifesto (a prescindere dagli orientamenti politici, si può tranquillamente affermare che pochi quotidiani si esercitino in titolazioni più ricercate e ironiche di quelle di questo quotidiano), il settimanale è ricorso alla parola d'invenzione "Papatrac", libero adattamento dalla voce onomatopeica "patatrac". Bello, corto, efficace. Bravi! Condivisibile anche il breve editoriale del direttore Giovanni De Mauro.

(Inquietante poi, per quel che mi riguarda, che nei giorni di questa notizia-fulmine stessi terminando la lettura di Roma senza papa di Guido Morselli).

sabato 16 febbraio 2013

RED Feltrinelli: Read Eat Dream. Il naming dei punti "vendita"

Chi l'avrebbe mai detto tanti anni fa che Feltrinelli sarebbe diventata la protagonista indiscussa e forse più "performante" del retail librario-culturale? L'azienda della F rossa, inclinata di circa 45° e inserita nel mezzo quadrato dal grande Bob Noorda, è oggi una delle realtà meno "sofferenti" per la crisi del settore e si propone con formule innovative, come la recente RED, un acronimo che sta per Read, Eat, Dream. Leggi, mangia e sogna, questo il nuovo motto delle fu-librerie al 100% che mescolano ora libri e cibo (il "cibo è cultura" ci ricordano premurosamente) e altri desideri. Scenari di diversificazione già avvistati in Italia, in altre note famiglie del capitalismo nostrano, e qui collocati all'interno di spazi che, accanto al core business librario (ancora per quanto?), aggiungono la vivacizzante spruzzata della ristorazione e il taglio à la julienne da "social network fisico e reale" rappresentato dal contenitore "Dream": in sostanza uno spazio per sognare, un luogo dove si desidera andare e ritornare per i motivi più disparati, per incontrare e consumare incontrando. Questi gli intenti ravvisabili nelle parole che accompagno il lancio di questi concept-store.

Non divaghiamo. Accontentiamoci del nome. L'acronimo RED rimanda direttamente al colore istituzionale di Feltrinelli, un colore tra l'altro molto centrato nel mondo gastronomico. Il colore rosso si presta poi ad accompagnare anche l'aspetto "onirico" di questa operazione di naming. Tra RED e READ (ovvero l'originario core business del retail Feltrinelli) c'è solo una A di differenza. Il tutto risulta breve e facilmente ricordabile, come si addice al nome di un posto della città da nominare con un certa frequenza nei dialoghi quotidiani, faccia a faccia o appunto in altre forme dialogiche dell'oggi. L'unica pecca che quest'operazione forse nasconde è l'appellarsi ad una parola inglese per una strategia che invece vuole profumare dell'italianità dell'offerta gastronomica. Il concept pare giungere tempestivo: assistiamo ad una rivincita di tutto ciò che è cibo. La televisione, in questo, ha dei tratti pazzeschi e grotteschi. Anche quel che resta della carta stampata non scherza. Sicuramente la formula di Feltrinelli non è ispirata a Gordon Ramsey, ma si inserisce perfettamente in questo filone di gran protagonismo del cibo, di esibizione e sofisticazione, o di semplicità venduta come nuova sofisticazione. Non sto dicendo che questo sia il caso di Feltrinelli, ma sto dicendo che partire e ritornare al cibo sembra ormai diventato un must. Cibo come social network per antonomasia? Divagazioni...

Solo un'aggiunta. Il pay-off di RED, "Sta bene con tutto", sembra alludere a future forme di stretching dell'offerta. In questo caso il nome RED, nella sua neutralità e nel gran contenitore rappresentato dalla D di Dream pare azzeccato.

(Parlando di libri e cibo: qualche editore ha voglia di tradurre You Aren't What You Eat. Fed up with Gastroculture di Steven Poole?)

sabato 9 febbraio 2013

Il naming placement

Avete sentito parlare di product placement? Credo di sì. Quando guardate un film o una soap-opera e intuite che l'occhio della macchina da presa indugia su una marca di salviettine profumate o su un'etichetta di acqua minerale non è certo una cosa che avviene a caso. Si tratta di una nuova (meglio dire "più recente") frontiera dell'advertising. Svariate possono essere le forme e i modi di product/brand placement, discreti e marcati, singoli o plurimi all'interno dello stesso film o sceneggiato. Un esempio marcato di naming placement è stato il film con Ricky Tognazzi "L'ultimo crodino". In realtà ci sono ben più noti esempi di titoli di film che citano brand (Prada, Tiffany) o nomi di prodotto (Maggiolino o addirittura armi, che sono anch'esse brand, come "Una 44 Magnum per l'ispettore Callaghan"). Siamo qui, naturalmente, nei territori di naming e diritto (la mente va alla legge Urbani). A tal proposito segnalo questo ricco contributo disponibile in rete.

Anche in letteratura avviene qualcosa di simile. I bei libri di Romolo Bugaro ad esempio (ma non solo) sono farciti di nomi di marche ovunque, e pur seguendo abbastanza l'editoria non so se ci sia qualcosa di affine al naming placement sotto (in fin dei conti le marche popolano le nostre giornate, volenti o nolenti). Come non lo so, per fare un altro esempio nell'ambito dei programmi da prima serata, se tutti i brand citati dalla Littizzetto, nelle sue (a mio personalissimo e discutibilissimo avviso) ripetitive tenzoni col Fazio nazionale, ricadano dentro un discorso di product/naming placement.

venerdì 1 febbraio 2013

Sulla presenza della ragione sociale nel nome di dominio

Un blog sul naming potrebbe e dovrebbe risultare talvolta utile. Mi spiego meglio: c'è una pratica del naming "diffusa" ed è quella del cosiddetto "popolo delle partite iva" o di tutte quelle realtà imprenditoriali che necessitano di essere nominate. Pensate ad esempio al vostro idraulico, alla cartolibreria vicino a casa o al bar. In casi simili è assai improbabile che gli imprenditori di turno si rivolgano ad esperti, più facile scelgano tutto in casa o dopo una partita a carte tra amici. C'è però un aspetto che questi soggetti potrebbero contemplare, soprattutto nel caso decidessero di avere anche un dominio internet con il nome della loro attività. Potrei riassumere tutto con un consiglio a evitare di inserire la ragione sociale nel nome di dominio. Chiarisco tutto con un esempio. Se domani dovessi avviare la mia attività Elettroimpianti e allarmistica e decidessi di chiamarla Elettro Impianti Allarmistica e se decidessi di abbreviare il tutto in EIA non cercherei di registrare il nome di dominio www.eia-snc.com o www.eiasrl.com. Anche in ottica di indicizzazione è molto meglio un www.elettroimpiantiallarmistica.com o www.eia.biz o www.eia.info. La ragione sociale può star fuori dal nome di dominio, non è essenziale e in un certo senso non è qualificante. Senza dimenticare poi che la ragione sociale può anche variare mentre il nome può resistere anche alle variazioni di ragione sociale.