domenica 22 febbraio 2015

Da dove deriverà il nome Scoopy loop?

Non so se in Italia si possano già acquistare. All'estero, nel circuito di profumerie Douglas ad esempio, questi nuovi braccialetti/fasce per capelli (cavigliere?) sono già disponibili al prezzo fisso di poco inferiore ai 15 euro. Il concetto è circa questo: tre bande di stoffa colorate "handmade in California", vendute assieme in kit e unite da una piccola catenina metallica e un talloncino in cartone, tre colorazioni che possono star bene vicine in una miriade di combinazioni possibili. Come si legge nel sito, "Scoopy loops are super soft and don't damage your hair. They are creative, colorful, trendy and come in many fabulous colors: over 150 different materials and shades make it impossible to get bored." Vedremo se anche in Italia si diffonderanno e se il brand sarà percepito. Per ora la maggiore penetrazione nei mercati di lingua tedesca è forse dovuta alla nazionalità della fondatrice (austriaca). Venendo al nome, "loop" rimanda sicuramente all'anello, al giro chiuso e al nodo necessario per chiudere queste bande di stoffa; meno chiara è la scelta di "scoopy" la quale sembra quasi derivare da "scooby", ovvero dagli Scooby-Doo, quei braccialetti creati con tanti fili di plastica colorata, un tormentone recentemente riapparso. Chissà se è questa la vera motivazione del naming Scoopy Loop.

domenica 15 febbraio 2015

Sloggi non è da "sloggiare"

Una delle richieste più frequenti che arrivano quando si è interpellati sul naming è quella di fare esempi. L'esempio è richiestissimo e naturalmente riveste sempre una certa importanza. Ogni esempio - va da sé - esemplifica ma anche semplifica (talvolta troppo). Un assunto che spesso ho dovuto esemplificare è quello che la semantica "da dizionario" spesso passa in secondo o terzo piano quando ci troviamo davanti un nome di marca. Intendo dire che quel nome significa al di là (o al di qua) e oltre quella semantica, all'interno di una cornice che è data dall'uso e dalla pragmatica. Quanti davanti a Apple immaginano ancora il frutto? E quanti davanti a FIAT pensano al significato originario dell'acronimo? Ma tanto per stare a un esempio più simpatico, quanti davanti a un elastico di mutande o a un reggiseno Sloggi pensano alla seconda persona signolare indicativo presente del verbo "sloggiare"? (Sarebbe interessante sapere come quest'azienda, guidata dallo slogan "La rivoluzione del cotone", arrivò al nome Sloggi.)

lunedì 9 febbraio 2015

Un nickname può diventare brand? Il vino "Two Buck Chuck" di Charles Shaw

Trader Joe's è una delle tante catene americane (della California) che vende generi alimentari, risorse per barbecue e quant'altro. Mi raccontavano di recente il caso di un vino di Charles Shaw, azienda sempre della California: gran "valore" e prezzo retail simbolico (e molto americano) di 1,99 dollari. Un sottocosto, forse. Il pubblico ha presto rinominato questo vino di Charles Shaw introdotto in esclusiva da Trader Joe's in "Two Buck Chuck" (ossia il vino da due dollari di Chuck, nomignolo per Charles). Il racconto della storia di successo di questo nickname era spassoso, grazie anche al piglio istrionico del mio interlocutore. La storiella mi ha fatto pensare ad alcuni aspetti che elenco rapidamente: il tormentone del "Two Buck Chuck" ha evidentemente successo grazie al suono (un po' quello che è successo da noi con il claim "O così. O Pomì."). Il prezzo ha un valore simbolico fortissimo che però quasi mai, in Europa almeno, ha ripercussioni sul naming (più facilmente su un nickname e si pensi ad esempio a certe denominazioni usate dalla casa editrice Newton Compton). E infine mi chiedevo se e quando un nickname può diventare brand e quando inizia ad avere senso occuparsi di "proteggere" un nickname sorto quasi per caso o per scherzo.

domenica 1 febbraio 2015

VeryBello! Inglese nel nome ma non ancora nel sito

Si è detto e letto di tutto sul caso di verybello.it, il sito dedicato agli eventi culturali italiani legati all'occasione di EXPO 2015. Diciamo che la scritta "coming soon" vicino alla bandierina Union Jack che dovrebbe condurre alla versione inglese di un sito che all'inglese strizza l'occhio già nel nome si commenta da sé. Voglio dire che possiamo fare tutti i commenti su questo naming, che poi diventa nome di dominio (anzi, è uno di quei casi in cui naming e nome di dominio vanno di pari passo), possiamo apprezzarlo o disprezzarlo con pari accanimento, ma una volta che ci mettiamo il "very" in questo naming, pensare di andare online con la sezione inglese già pronta è davvero il minimo che chiunque persona in rete si possa aspettare. Detto diversamente, chiamare un sito VeryBello.it e andare online senza l'inglese è una follia che solo un paese che non conosce un briciolo di normalità politica e istituzionale può riservarci.