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giovedì 22 settembre 2011

R.e.m. (o Rem). I think I can remember your name.

Si sono sciolti i R.e.m., la notizia è di ieri. Come molti in Italia li avevo scoperti con Out of time (1991) e poi avevo percorso a ritroso la loro discografia fino a Murmur (1983) e Chronic Town (1982), consolidandola con l'indimenticabile Automatic for the people (1992), non perdendoli più di vista fino all'ultimo non convincente Collapse into now (2011). Lasciamo perdere quel senso forse stupido di dispiacere che prova qualsiasi fan al momento dello scioglimento dei propri beniamini, perché questo sono stati per chi scrive i R.e.m. per tanti anni. Non erano necessariamente i loro cd quelli che stavano più ore nel lettore, anzi, ma era il ricordo della scoperta della loro musica, le sorprese dei vecchi e nuovi album, l'idea che furono "galeotti" per la formazione del mio gruppo (a proposito, si chiamava Apryl, un bel naming del batterista) con il quale ho suonato per anni, tra l'altro musiche lontanissime dalle loro.

Ricordo quell'estate in cui divorai il libro di Stefano Magnani sulla loro storia. Dedicava più di una pagina alla scelta del nome della band: "Cans of piss", "Negro Wives" o "Twisted Kites", il nome con il quale si esibirono al primo concerto. Il loro successo è il motivo per riflettere sul naming delle band, ovvero il band naming (c'è solo una "r" di meno!). Un nome corto (come nel caso degli U2) ha portato molta fortuna e credo che si possa dire che il pop degli anni Novanta sia formato in larga parte da Rem e U2 (pur nelle diversità di scelte e atteggiamento). Solo recentemente, in epoca di scrittura digitale, era sorto il problema dei puntini tra le lettere del nome (ci vanno? Non ci vanno?). Pensando al nome, è normale che uno possa chiedersi: che cosa sarebbe successo se Michael Stipe non avesse scelto a caso, sfogliando un dizionario, quella sigla breve così centrata con il loro pop onirico, con liriche "alla maniera" di William Borroughs? Se avessero mantenuto uno di quei nomi poi scartati, le cose sarebbero andate come sono effettivamente andate? Sono quelle domande senza risposta che ogni tanto l'interesse per il naming porta a porgersi. Ma chissà se ha senso continuare in questi pensieri...

I nomi delle band sono a tutti gli effetti brand name. Ci sono nomi che hanno fatto epoca (pensiamo Rolling Stones o a Iron Maiden in ambito heavy metal). Sempre nell'ambito metal, magari restringendo la visuale al death metal, è interessante notare come i nomi abbiano solitamente una caratteristica me-too: le band cercano nomi simili, con rimandi e connotazioni macabre. Il post-rock ha portato una nuova generazione di nomi (pensate ai Tortoise o agli Shellac). Sarebbe interessante analizzare la storia della musica rock dal punto di vista dei nomi delle band. Si scoprirebbero dei filoni interessanti. La curiosità dei miei amati Rem è che alla fine, a differenza dei gruppi metal e dei loro iconici loghi, non si sono mai adagiati su un logo e, di album in album, abbiamo trovato quelle tre lettere scritte nei modi più disparati. In ambito italiano, tra i miei preferiti ci sono i Massimo Volume. Il loro nome pare derivi da quanto si dicevano durante le prove: "Massimo Volume!", invitando ad alzare a palla gli amplificatori. Ci ho sempre letto anche un senso di "volume" come "spazio occupato" e la citazione da Fuoco fatuo di Drieu La Rochelle contenuta in Lungo i bordi potrebbe avallare questa ipotesi. Scusate, ogni tanto un post autobiografico e nostalgico.