martedì 29 novembre 2011

Èspresso, Nespresso e le altre. La battaglia del caffè porzionato è anche nei nomi

Davvero è sotto gli occhi di tutti l’aumento di attenzione, anche in termini di comunicazione, al caffè porzionato in capsule. Una battaglia commerciale che si batte a suon di brevetti, esclusività, fidelizzazione e, in teoria, anche sul gusto (chissà cosa penserebbe il grande Piero Camporesi che al caffè e al cioccolato aveva dedicato quel suo libro dal titolo Il brodo indiano).
 
Circa un anno fa mi ero soffermato su un numero de L’Espresso dove contavo almeno cinque inserzioni dedicate al caffè in cialda, con annesso un articolo a sfondo economico su questo fenomeno. Cialde, macchine: un binomio che si sta imponendo all’attenzione. Pochi giorni fa invece mi sono soffermato sulla pubblicità di Èspresso, la cialda lanciata del più antico produttore di caffè italiano, Caffè Vergnano.
 
Normale, per chi scrive su un blog dedicato espressamente al naming, notare la sostanziale vicinanza con il brand del momento, cioè il Clooney-Nespresso-What else. Ma se il nome Nespresso è risultato della classica strategia di denominazione di moltissimi brand Nestlè, Nes+qualcosa (ad esempio Nesquik, Nescafé, Nestea ecc.), Èspresso gioca una strategia me-too apertissima fin dal naming con il proprio concorrente. E inoltre, nella realtà, si pone anche come cialda compatibile con macchine Nespresso.
 
Posso provare a capire le altre ragioni di questo naming. “Espresso” è ormai una parola internazionale, compresa in tutto il mondo, ad un livello di filosofia del linguaggio ha pure un referente unico in tutti i bar e Starbucks del mondo (non è così per altre parole della "caffetteria italiana"). Quindi “espresso” è una parola che fa gola. Però è altrettanto vero che il nome dovrebbe servire a posizionare, suggerire, offrire uno spunto. Relativamente a questo naming rimane quindi una perplessità sulla pronuncia (lo accentiamo davvero sulla prima “e”?) e una sul posizionamento. Rimedia bene a questo la copy-strategy scelta dall'azienda piemontese: "È italiano. È sotto casa. È ecocompatibile" (tre aspetti che si tramutano in vantaggi-posizionamento evidenti per il consumatore). In questo senso allora viene recuperata quella "e" accentata del naming e lanciata apertamente nella comunicazione tripartita del prodotto.

lunedì 28 novembre 2011

"Gomme termiche". Un naming improprio che porta bene?

Il naming a volte funziona anche ad un livello di "nome comune". Funziona ancor meglio quando fa passare un concetto e lo rende spendibile nel linguaggio di ogni giorno. Mi sembra il caso dell'espressione "gomme termiche" che, almeno dalle mie parti, ha quasi il sopravvento su quella più corretta ma meno efficace di "pneumatici invernali". In questi giorni i gommisti lavorano a mille e credo lavorino molto più degli anni scorsi, nonostante le precipitazioni nevose, almeno nella zona dove abito, non siano esponenzialmente aumentate. Mi pare sia evidente perché il naming (improprio?) di "gomme termiche" funzioni: sembra quasi ci sia un asciugacapelli incorporato nel pnumatico che fende la neve e ti lascia libero di guidare come su una strada asciutta... sicuramente l'espressione "gomme termiche" ha una certa presa sull'immaginario, più di "pneumatici invernali". Ho provato a chiedere a qualcuno come si spiega il funzionamento di questo tipo di pneumatici... Trovo questo un esempio di come ci sia anche un universo di naming che va oltre i brand ma che entra ugualmente nel linguaggio di ogni giorno. Lo scopo rimane sempre quello: sostenere la vendita.

domenica 20 novembre 2011

IDEA, il nome dello scarpone da sci allungabile per bambini

In tanti attendono in questo periodo le prime nevicate per poter lanciarsi con gli sci. Affronto allora un prodotto e un caso di naming che mi sono molto vicini, forse pure troppo, in quando si tratta di un prodotto e un brevetto internazionale che esce da Roces, azienda per la quale lavoro da diversi anni. Ne ho seguito l’idea originaria (davvero rivoluzionaria per un settore assai conservatore come quello degli scarponi da sci), i primi studi di fattibilità, quella che nel gergo si chiama SWOT analysis, i vari passaggi del design (davvero avvincenti quando si affronta un concept di prodotto inesistente), lo studio dell’immagine coordinata, la definizione della piattaforma comunicativa e il delicato lancio nel 2006. Ovviamente ero presente quando si decise definitivamente per il nome IDEA.

Il prodotto in questione è uno scarpone da sci per bambini regolabile in lunghezza, altezza e larghezza. Segue armonicamente la crescita del piede, della caviglia e del polpaccio del bambino e può durare fino a tre stagioni sciistiche. Offre quindi una risposta concreta alla rapida crescita dei piedi dei bambini.

Per Roces ha rappresentato il rientro, tutt’altro che scontato, nel mercato degli scarponi, dopo decenni trascorsi tra pattini inline e da ghiaccio. (Detto per inciso, in qualsiasi aeroporto d’America vi troviate, provate a dire che avete “inline skates” nello zaino… quasi sicuramente vi chiederebbero “what?”; allora meglio se siete pronti a dire “rollerblade” per descrivere i vostri pattini in linea, citando come nome comune un nome di marca vero e proprio: ecco un esempio a me vicino di “lessicalizzazione del nome di marca”, come scotch o post-it, una cosa di cui potrei parlare a breve in un blog come questo).

Dal punto di vista del risparmio per le famiglie, dal punto di vista del design inteso come “aggiunta di nuove prestazioni a prodotti già maturi” e anche dal punto di vista ambientale (un numero inferiore di scarponi che finisce in discarica, con la possibilità di “far durare” davvero per anni il prodotto), lo scarpone IDEA è un prodotto davvero ineccepibile. Anche la risposta del mercato è arrivata presto.

In questo spazio parlo di naming. Da “deformato” quale sono, mi sono posto varie volte l’interrogativo se IDEA fosse il nome più “adatto” per un prodotto con un portato così ampio di innovazione intrasettoriale. Se mi fossi fatto guidare dal binomio naming-posizionamento avrei infatti dovuto privilegiare una lettura del naming che dicesse cosa fa questo prodotto (si allunga, si accorcia, si alza, si abbassa, si allarga… fa tante cose!). A distanza di anni però devo dire che la denominazione scelta ha mostrato degli indubbi vantaggi. Provo ad elencare i principali.

- Ha comunicato italianità e questo, nel settore sciistico, rappresenta un vantaggio (la cosa più interessante è sentire inglesi, australiani o americani pronunciare questa parola, identica nella loro lingua, con la pronuncia italiana);
- ha rappresentato quello che il prodotto è: un’idea, qualcosa alla quale nessuno aveva pensato prima, un’intuizione (banalmente, ma non facilmente, quella di mutuare una tecnologia da anni presente nell’industria dei pattini a un settore vergine ma affine, quello degli scarponi);
 - si è prestata a dei vantaggiosi giochi linguistici a livello di copywriting;
 - è breve, facile da ricordare e tutto questo fa gioco anche con la strategia di comunicazione che ha visto nel web il canale privilegiato della promozione, laddove il contenuto “virale” del prodotto si sposa con la velocità di diffusione del (buon) virus tipica del web;
 - nella sua semplicità assoluta raduna l’essenza del prodotto ed ha saputo funzionare come coagulante dell’operato di tutti quelli che ci hanno lavorato sotto, sopra, dietro.

Per tutti questi motivi, alla fine, reputo IDEA un naming all’altezza di un prodotto così innovativo. Probabilmente, se ci fossimo incaponiti su una ricerca che abbinasse naming e posizionamento non saremmo riusciti a perseguire così tanti obiettivi con un nome diverso. Chi può dirlo oggi? Resta anche il fatto che se la concorrenza reagirà con prodotti simili, IDEA resterà un buon nome per il capostipite di tutti gli scarponi allungabili per bambini, per lo scarpone che ha creato una categoria prima inesistente. Il contenuto di innovazione è talmente alto nel prodotto che non si è cercato di forzare la mano anche nel naming, privilegiando un nome adatto alla famiglia, il vero punto di riferimento per un'idea del genere. Questo è quello che traggo da tutta questa storia, che, sotto gli altri aspetti, rimane soprattutto un'interessante e avvincente storia di design (italiano).

Vi lascio con la visione del video che illustra il funzionamento e i benefici di questo scarpone, una realizzazione che ho portato a termine un paio di mesi fa con lo studio Multimediabazan e da poco caricata su Youtube.


venerdì 11 novembre 2011

Martini rocks!










Ogni tanto sarà bene tornare su post più vecchi per integrarli, supportarli, eventualmente anche correggerli. Ed è proprio quello che vorrei fare brevemente oggi, con riferimento all'intervista ad Angelo Ferrara di RobilantAssociati, la settima della serie. Potrebbe essere uno stimolo per dedicare dei post ad alcune creazioni e integrazioni dei vari intervistati che si sono susseguiti (altri ne verranno, mi auguro).

Il nome che RobilantAssociati ha sviluppato per Martini è un pun, o gioco di parole (lasciatemi una parentesi, che alla fine c'entra pure col naming: un editore nostrano si prenderà la briga di tradurre e proporre The Pun also Rises di John Pollack?). Il nome ha in sé diversi nuclei di interesse:

1. un aspetto "metodologico": trasforma la metodologia ghiaccio: da on ice - on the rock - it rocks;
2. si lega a Martini e diventa verbo e messaggio: Martini Rocks;
3. sposta il baricentro verso un pubblico più giovane diventando quasi una sorta di slang: "Martini Rocks" s'avvicina a significare appunto "un grande", uno che "spacca";
4. il logo Martini, "O" inclusa, e viene proposto in verticale, per accentuale la sua natura "ribelle" e informale (aggiungiamo che anche le scelte di lettering vanno in questa direzione);
5. al contrario dei nomi allegati a Martini (Royale), tale denominazione diventa un "pezzo unico" assieme al marchio.

Questa case study, così brevemente enunciata, è un'ottima esemplificazione del concetto di piattaforma comunicativa di un nuovo nome, per il quale rimando all'intervista ad Angelo Ferrara.

domenica 6 novembre 2011

Colgate, Carefree, Gio'Style. Quando la pronuncia va per conto suo

Le tre marche del titolo sono le prime che mi sono venute in mente. Rappresentano casi di una pronuncia fortemente italianizzata. Sarebbe interessante procedere ad inventariare queste situazioni e capire come nasce questo rapporto "viziato" tra naming internazionale e pronuncia locale del nome. Dopo il post relativo ai nomi di Algida, mi rendo conto che sto procedendo a portare esempi di casi non ortodossi che vanno contro i capisaldi delle più consolidate pratiche di naming (stesso identico nome in tutto il mondo, pronuncia inattaccabile da spelling errati). 

Una spiegazione di base per questo paio di fenomeni è comune: l’internazionalizzazione degli scambi, delle acquisizioni (merger and acquisitions) e del branding è stata molto più rapida dell’internazionalizzazione del “mercato” dei segni, che vive tempi più lunghi, compreso nel caso di quel triste basic-business english oggi lingua franca in molte scelte di naming.

Ma torniamo ai tre esempi Colgate, Carefree e Gio’Style: è stato il massiccio martellamento pubblicitario che ha messo in circolo queste pronunce, basti ricordare i jingle di Carefree o Gio’Style (in questo secondo caso serve andare un po’ più indietro negli anni). Così anche presso un pubblico che masticava abbastanza bene l’inglese ha vinto la pronuncia italianizzata.

Si potrebbe riflettere sulle ragioni di queste scelte. Quasi sicuramente i pubblicitari, sfiduciati dell’italica non conoscenza delle lingue straniere, si sono convinti che era opportuno italianizzare al massimo le pronunce. Il fatto è che, nel caso di Carefree (sic... letto proprio come si scrive), ne è uscita una pronuncia assai buffa che inoltre ha spappolato completamente il buon posizionamento convogliato da quel nome ("spensierata"). Ovviamente tale posizionamento è stato recuperato dalle storie narrate dagli spot (c'è tutto un filone di prodotti per il personal care o la farmacia fai-da-te che narra la giornata fuori casa libera dai pensieri che possono dare certi "intoppi" come il raffreddore, la diarrea o altro ancora, un filone che esplicitamente sostiene la necessità della "performance" nella vita di ogni giorno fuori dalle porte di casa).

La mia percezione è che tale fenomeno di italianizzazione di pronuncia si sia arrestato. Naturalmente servirebbero studi e metriche adeguate per affermarlo con certezza. Se la percezione si confermasse vera, credo che le cause potrebbero ritrovarsi in una migliorata alfabetizzazione, in una maggiore mobilità e anche nell’assenza di martellamenti così massicci come quelli di un tempo che servivano a introdurre/imporre all’attenzione determinati prodotti congiuntamente alla loro pronuncia (giusta o adattata che fosse). Se l’era dell’interruption marketing volge al termine come ha sostenuto Seth Godin, allora anche il naming dovrà in parte tener conto della cosa. Resta comunque il fatto che le diversità di pronuncia rimarranno sempre e ovunque, con buona pace di tutti. Un buon nome internazionale può soltanto provare a rendere il compito della fonazione più agevole su diversi paralleli e meridiani.

martedì 1 novembre 2011

Tutti i nomi di Algida

Il caso della marca di gelati rappresentata dal cuore qui accanto è interessante. Sembra infatti andare contro uno dei postulati del naming, cioè quello dell'unicità del nome.

Chiunque abbia un po' viaggiato per l'Europa avrà trovato e magari acquistato un gelato Eskimo, Frisko, Ola, Frigo, Langnese consapevole di mangiare un Magnum Algida o qualcosa del genere: sono tutti nomi che si riferiscono sempre e comunque al marchio di proprietà di Unilever (un filosofo del linguaggio potrebbe fare una lezione sul naming di questo brand). Questa configurazione di naming può darsi nei casi di crescita per nuove acquisizioni, tipico di aziende multinazionali, un processo che può portare un brand ad assumere differenti brand names a seconda del paese dove ci troviamo o ad assorbire la denominazione "dominante".


In Wikipedia leggiamo che la marca di cui sto scrivendo sta progressivamente abbandonando il nome per far vivere il suo heartbrand in solitudine (e qui mi chiedo: Nike ha davvero rivoluzionato l'immaginario con il suo swoosh?). Tuttavia, un nome basato sul suono e sulla fonetica deve sempre darsi, fosse anche per il semplice fatto che se parlo vado decisamente meglio (ed è meglio anche per l'azienda) se chiedo "un gelato Algida" anziché "un gelato di quelli col cuore". Ma questo è solo il primo motivo che mi viene in mente e la lista si potrebbe allungare per cui, quello che ricaviamo ora, è una sorta di monito: nessuno pensi di poter far fuori il nome in vista del solo logo-emblema; piuttosto servirà capire come gestire le problematiche di traduzione e pronuncia, a livello globale, di un dato brand internazionale. In ottica futura sarà interessante capire se tutti i nomi di Algida rimarranno tali (una moderna versione in ambito naming del solito adagio Think globally, act locally) o se dovremo ipotizzare un'operazione di re-naming su scala mondiale che dia a questo "Heartbrand" (così lo chiama Unilever nel proprio sito) un naming unico e immutabile.