venerdì 28 luglio 2017

Il rebranding e renaming dei luoghi (da un articolo di "The Economist"

Pensiamo ad esempio a Fifh Avenue. Certi nomi di luoghi (vie e vicoli, arterie importanti, parchi, quartieri ecc.) sono diventati dei veri brand con una sorta di "posizionamento mentale" nella testa delle persone che li percepiscono e li usano a diversi livelli. Naturalmente è diverso lo statuto di questi brand topografici, dal momento che nei loro casi non si tratta di normali aziende che detengono un dato brand. Inoltre, a volte, manca la possibilità di individuare chi per primo ha denominato un dato luogo in un dato modo. L'articolo di "The Economist" a cui rinvio qui è interessante perché ripercorre il modo in cui si formano, si affermano e poi magari muoiono certe denominazioni in città come New York. Al di là delle curiosità che contiene, l'articolo pone l'attenzione su un aspetto rilevante: la necessità di nominare o anche rinominare un tessuto urbano in continua evoluzione può dare vita a denominazioni che paiono funzionare meglio di altre. Ad un livello secondario, è interessante notare come la pratica dell'acronimo, così diffusa nei nomi di musei (luoghi di città anche questi, in fin dei conti), sia ormai diffusissima anche nelle pratiche di denominazione delle parti di una città. La denominazione di luoghi tocca i tasti dell'identità, della sociologia urbana, della percezione del tessuto cittadino ed è un terreno d'osservazione privilegiato per osservare i mutamenti. Se penso all'Italia, ad esempio, penso a come siamo legati sempre al passato: quante volte una nuova area è stata ribattezzata "ex-qualcosa" in ricordo di quanto prima insisteva in quei metri quadrati? Anche questa tipica pratica italiana di denominazione dei nuovi luoghi mi pare possa essere spia di qualcosa.

mercoledì 19 luglio 2017

"We do the prep. You be the chef". Il marchio per i kit-pasto di Amazon

Che Amazon punti sempre più a una massiccia presenza nella quotidianità di ciascun consumatore che acquista online è evidente. Già "l'acquisto su Amazon" è diventato tema di conversazione nei luoghi e contesti più disparati, quasi fosse un'azione particolarmente qualificante (probabilmente chi racconta di aver comprato su Amazon qualcosa che prima comprava altrove si sente pioniere). E da un po', con l'aprirsi alla spesa e alle sue "liste" (vedi Amazon Pantry), il tentativo di Amazon di diventare sempre più presente nel quotidiano è innescato. In quest'ottica, il nuovo marchio registrato per i kit-pasto "We do the prep. You be the chef" incuriosisce per la lunghezza del naming (si legge qualcosa qui). Al di là delle considerazioni sociologiche o culinarie che si possono ricamare attorno a questa notizia, per restare al nome notiamo una certa simmetria costruita attorno al punto centrale: We/You, do/be, the/the, prep/chef. La simmetria è anche nella quantità di sillabe. Nome lungo, sì, ma con un certa logica e sonorità. Staremo a vedere, per ora si parla appunto di deposito del marchio.

lunedì 10 luglio 2017

Sul nome Zipack per degli zaini

Non si aspetta più agosto per pubblicizzare zaini, astucci e altri prodotti destinati perlopiù a quel periodo che altrove, commercialmente, definiscono "back to school". Adesso la pubblicità degli zaini appare sui canali televisivi per i più piccoli già a inizio luglio, a scuola appena finita o ancora in corso. Mitama sta presentando una linea di zaini dal nome Zipack. Ora tutti sanno qual è il nome dell'azienda concorrente da battere ed è abbastanza chiaro che si vuole giocare col naming una strategia me-too con Eastpak. C'è una sostanziale differenza nel suffisso, con la "c" in Zipack, senza "c" in Eastpak. Tuttavia è chiaro che la partita si gioca in quell'universo sonoro e forse nel richiamo al concetto di "zip", nelle prime tre lettere del nome "Zipack" (si veda anche il protagonismo della zip nella foto accanto). Staremo a vedere come sarà questa concorrenza osservando cosa c'è sulle spalle degli alunni d'Italia. Per ora Eastpak pare davvero un cliente difficile da scalzare, protagonista di un'ascesa davvero curiosa negli ultimi decenni.

mercoledì 5 luglio 2017

Il renaming del direttore d'orchestra (sul branding in musica)

Ultimamente, per vari motivi, mi sto interessando di direttori d'orchestra. Nessuna velleità, non ci capisco granché, ma certi aspetti mi incuriosiscono. Ad esempio mi piacerebbe un sacco approfondire la figura di Arturo Toscanini, ma questo non è il posto per scrivere troppo dei miei desideri irrealizzati. Al di là di questo, oltre ai nomi noti del Novecento, mi sono imbattuto anche in nomi meno noti, magari trovati sul retro dei CD DeAgostini che comperavo a 16 anni a 9.900 lire in edicola, tanto per comporre una prima collezione di capolavori. Un nome che mi era sempre rimasto impresso è Alberto Lizzio, così l'altro giorno ho fatto qualche ricerca più motivata e ho scoperto che sostanzialmente si tratta di un nome fantasma che potrebbe nascondere il nome di qualche altro direttore ben più noto. La faccenda è spiegata ad esempio qui in inglese o qui in italiano. Che cosa si può ricavare da queste scelte? Che probabilmente anche le case discografiche e i direttori d'orchestra agiscono - e non da oggi - come brand, e quando le loro registrazioni passano a un mercato di massa e economico, nelle cosiddette linee "budget" (i prodotti "da cesta" del supermercato, direbbe un mio collega, oppure da edicola, come era la serie che compravo io) si cambia nome al direttore, probabilmente per non intaccare il prestigio del vero nome che rimane il brand principale. Il meccanismo non è dissimile da quando compriamo un prodotto di una "sottomarca" in un discount che però ha lo stesso gusto del prodotto più noto di marca che troviamo nel supermercato dall'altra parte della strada. Per la cronaca: recentemente, comunque, anche i CD della storica Deutsche Grammaphon si trovano nella cesta delle librerie Feltrinelli.