giovedì 27 aprile 2017

La rete ha avuto e avrà un impatto nel modo in cui denomineremo i nuovi prodotti?

Una riflessione a margine sui destini del brand naming in quanto pratica adottata per il lancio di nuovi prodotti, soprattutto alla luce della rilevanza delle piattaforme digitali che diventano centrali nel lancio dei prodotti stessi. Faccio un passo indietro: in un contesto che prevedeva la comunicazione di massa, i GRP della pubblicità, l'uno-a-molti come piano di comunicazione, il nome doveva dimostrare determinate caratteristiche. Le sappiamo: essere memorabile, fantasioso, libero da associazioni negative, esportabile, in grado di posizionare un prodotto o un'azienda nella testa di un consumatore. Il nome è (era) un personaggio della storia del lancio del prodotto. Molto banalmente - e molto brevemente - la riflessione che sento si potrebbe fare è circa questa: in un contesto dove le piattaforme piatte e nodali della rete e dei social prendono il sopravvento anche nel lancio di un prodotto, che cosa muta per il destino della pratica del naming? I nomi potranno anche assomigliare a banali sigle come "3XJS" da affiancare a una mother-brand nella stringa di denominazione (struttura nominale) che digitiamo nelle barre di ricerca dei motori o dei vari siti, inclusi quelli di e-commerce sempre più potenti e centrali? Assisteremo quindi sempre più al ritorno di naming meno ricercati e evocativi, meno "raccontati" e in fondo anche più rinunciatari nella loro storica vocazione a posizionare il prodotto che tengono a battesimo? Sono tutte domande plausibili, io credo. A mio avviso già qualcosa sta cambiando e il nuovo universo di comunicazione inizia ad avere delle ricadute nelle pratiche di denominazione che si erano consolidate in un'epoca dove erano prioritarie altre sollecitazioni e altri mezzi. Sicuramente ogni nuovo prodotto da lanciare continuerà a costituire caso a sé e continueranno a tener banco, ad esempio, determinate problematiche legali. Tuttavia non mi stupirei che nel futuro possano ritornare molto in voga delle sigle apparentemente asettiche a battezzare i prodotti, accompagnate da delle descrizioni su cosa il prodotto fa o cosa il prodotto è (questo varrebbe per la SEO e naming e SEO possono essere ormai inquadrati come attività affini). Chi si occupa di naming dovrà comunque continuare a tenere presente le problematiche legali, linguistiche e di marketing che ogni nuovo nome mette in campo e essere più consapevole delle dinamiche e dei mezzi con cui il nuovo nome verrà veicolato.

martedì 18 aprile 2017

Tuc Stick: quando il suono di un nome ne suggerisce un altro

Mi pare evidente che nel caso del prodotto raffigurato a lato si presenta una situazione abbastanza curiosa: un nuovo nome, tutto sommato assai prevedibile come "stick" (i grissini in inglese sono "breadsticks") si rafforza sonoramente grazie alla vicinanza con il brand principale TUC. TUC e STICK diventano così una sorta di "gruppo nominale" formato da due parole con suoni affini, suoni secchi e "croccanti", che si rafforzano e completano proprio nella vicinanza. Questo esempio mi pare utile per dimostrare un assunto semplice: anche le scelte apparentemente più banali possono assumere determinati valori (qui necessariamente valori fonosimbolici) alla luce di una data nuova struttura nominale del prodotto creato a seguito di un classico processo di brand extension.

venerdì 7 aprile 2017

"Language design. Guida all'usabilità delle parole per professionisti della comunicazione" di Yvonne Bindi

Questo blog tratta principalmente di problematiche legate al naming e ai nomi di marche e prodotti. Tuttavia, sin dal suo sottotitolo, è chiaro l'interesse per ciò che è "microtesto". Ora, prima di procedere bisognerebbe definire bene cos'è un microtesto, ma facciamo finta di esserci intesi e di accontentarci delle nostre intuizioni e che il pulsante (pulsante?) arancione che io vedo ora nell'interfaccia di gestione di questo blog in alto a destra e che dice "Pubblica" sia un chiaro esempio di microtesto. Sono 4 i pulsanti in alto a destra nello schermo, uno dice appunto "Pubblica", uno "Salva", un altro "Anteprima" e infine "Esci". "Pubblica" ha un colore diverso dagli altri tre. La cosa interessante è che tre su quattro danno un ordine sotto forma di verbo, mentre "Anteprima" no. Chi progetta simili interfacce, chi si occupa di terminologia o anche chi si occupa di verbal branding e chi si interessa di architetture dell'informazione, sa bene quante problematiche ponga l'uso delle parole a un livello micro. Lo sa bene anche Yvonne Bindi, laureata in Comunicazione Internazionale, che è architetto dell’informazione ed esperta di linguaggio e comunicazione, e da poco ha dato alle stampe per Apogeo il libro Language design. Guida all'usabilità delle parole per professionisti della comunicazione (pp. 216, euro 24,90). Quando scrive "Progettare per il tempo vuol dire non pensare mai prima o poi lo capiranno. Devono capirlo prima. Punto e basta." dice qualcosa che è valido anche per il nostro naming, qualcosa valido in tutti quegli utilizzi in cui la lingua è scommessa di comprensione, interfaccia disegnata in anticipo (e in fondo potrebbe essere interessante studiare i nomi di marche proprio come "interfacce" e dispositivi che interagiscono con logo, packaging, ambienti e situazioni comunicative reali e virtuali).

Il libro in questione va inquadrato come un importante contributo a quanto cade sotto l'etichetta di "user experience design" e se vogliamo anche al grande capitolo del "fare cose con le parole", anche se non di atti linguistici propriamente si parla. Progettare e disporre l'informazione è un compito delicato, difficile, mai scontato. Segnaliamo questo volume di Yvonne Bindi in un blog dedicato al naming e ai microtesti perché è una lettura significativa per chiunque si occupi di marketing e di quella parte del lavoro di marketing e comunicazione che è direttamente collegato a lavori con le parole, all'interazione parola e immagine (e anche il naming e il verbal branding prevedono questa interazione). Insomma, le parole sono interfacce importantissime di qualsiasi ambiente informativo e di qualsiasi progetto di comunicazione e spesso creano divergenze e sprechi nei meccanismi della comprensione. Per Donald Davidson è la comprensione che dà vita al significato, non viceversa, ma in tutti quei sistemi in cui serve massimizzare lo sforzo per far sì che la comprensione diventi un fenomeno certo e raggiungibile nel più grande numero di casi (e nel minor tempo possibile), serve fare in modo che si riduca al massimo il rischio di incomprensioni sorte da un inappropriato utilizzo delle parole. Gli esempi contenuti nel volume sono moltissimi e trasformano questo libro in uno strumento molto duttile, in grado di intercettare interessi molteplici. In un passaggio dedicato proprio ai nomi si legge:
Un nome è già di per sé una piccola definizione, uno spazio concettuale molto più ampio dello spazio fisico che occupa. Può contenere molto profumo dell’informazione rispetto a ciò a che indica: può cioè anticipare e suggerire l’essenza della cosa nominata e fornire un assaggio della sua natura.