martedì 13 dicembre 2011

Naming e fonosimbolismo #1

Nell'immagine avrete riconosciuto il famoso esempio di Wolfgang Kohler, celebre psicologo gestaltista. Come il suo campione di intervistati, se vi venissero fornite le parole “maluma” e “takete” per nominare le due figure, sareste quasi certamente d’accordo a chiamare “maluma” la figura tonda e morbida e “takete” quella spezzettata e spigolosa. Questo esempio ricorre quasi sempre quando si introduce il fonosimbolismo.

Cosa c’entra tutto questo con il naming? Per anni, e la configurazione continua tuttora, il fonosimbolismo è stato il principale contributo teorico alla pratica del naming. In Italia, ad esempio, rimando agli studi di Fernando Dogana e al suo Le parole dell’incanto. Esplorazioni dell’iconismo linguistico. Capire come convogliare determinati attributi funzionali, psicologici o di design di un prodotto attraverso il ricorso a determinati fonemi o concatenazione di fonemi, a una consonante palatale anziché labiale, ad una larga “a” anziché ad una stretta “i” è stato il cruccio delle più articolate operazioni di naming. Oggi mi vien più facile parlare di "sound design", così come di "letter design" (gli aspetti tipografici della configurazione delle lettere, particolarmente rilevanti nelle operazioni di identità visiva o di nomi creati per il web).

Pensate soltanto a quanti prodotti per l’igiene della casa si presentano come monosillabi, con quella “i” che dovrebbe trasmettere velocità, praticità, facilità d’uso (Vim, Cif, Lip).

Questa è la puntata introduttiva di una serie dedicata al fonosimbolismo. Mi limito quindi a introdurre l’argomento, che è centrale tuttora nell'ambito del naming professionale, non fosse altro perché è ancora ben presente nelle agenzie specialistiche: basta notare quale approccio segue un’agenzia americana come Lexicon Branding (Intel, Swiffer, BlackBerry tra i nomi più noti che ha coniato) e si comprende che le discussioni attorno al fonosimbolismo applicato al naming sono ancora attuali. Nel mio libretto di qualche anno fa non ho potuto ignorare questo filone, anche se ho provato a spostare l’accento sui contributi che possono arrivare da un costrutto sociolinguistico come quello di “situazione comunicativa”, sviluppato a partire dagli studi di William Labov, e dalla rilevanza della pragmatica linguistica. Ma non mi dilungo. Tornerò a parlare di fonosimbolismo con esempi in futuro. Poi, forse, esaurita questa serie dedicata al fonosimbolismo, mi addentrerò in alcuni esempi dedicati all’apertura sociolinguistica-pragmatica al naming (già ho iniziato a farlo, ad esempio, con il post dedicato al succo Santal B.A.). Prendendo a prestito e mutuando le parole del filosofo Donald Davidson, questa apertura sociolingustica-pragmatica sembra stia lì a dirci che “è la comprensione che dà vita al significato” dei nomi di marca. Non è un significato preconfezionato col nome che ne “garantisce” la comprensione. Non c’è alcuna garanzia di comprensione nella scommessa veramente creativa della comunicazione, compresa la comunicazione a fini commerciali. E dico questo con buona pace dei pubblicitari e namers che si autodefiniscono “creativi” e di tutti quelli che confondono questo aggettivo-sostantivo sfortunatamente inflazionato con una certa capigliatura, una montatura d'occhiali, un abito, o, peggio ancora, con un accento vagamente milanese.

4 commenti:

  1. Ho scoperto questo post e il blog grazie alla segnalazione su quello di Luisa Carrada, Il mestiere di scrivere. Congratulazioni! Michela

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  2. Anche io sono arrivata qui via Luisa Carrada.
    Post molto bello, aspetto il seguito.

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  3. Oh yeah! Forte il finale!! Ci voleva. Fabrizio

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  4. Nella comunicazione, nella pubblicità di creativo non c'e' quasi nulla (forse solo una minima intuizione)
    E' più creativo inventarsi un piatto con gli avanzi del frigo.

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