In quasi tutti i libri di storia della pubblicità troverete una fotografia che rimanda alle memorabili campagne di Jesus Jeans, un brand che ha fatto epoca, soprattutto per la comunicazione. In italiano il claim recitava “Chi mi ama mi segua” e il visual era abbastanza eloquente, un sedere stile Morositas e un paio di jeans tagliati a rivestire le natiche. In inglese potevamo leggere, sopra quel sedere o all’altezza del giro vita, “Thou shalt not have any other jeans but me” oppure “He who loves me follows me”. Jesus jeans: solo due lettere di differenza tra le due parole, -SU- al posto di -AN-. Credo che questo brand name possa a buon diritto entrare anche nella casistica dei nomi più memorabili, visto che poche aziende si sono spinte così oltre da dare un nome così ingombrante a una marca. Quest’esempio serve per rimandare a un problema non infrequente, cioè il rischio di offendere o urtare determinate sensibilità con operazioni di naming in ambito internazionale: non è difficile inventare un nome che magari in polacco suona come un’imprecazione e/o in giapponese – che ne so – come prostituta. Sono i rischi sempre latenti in ogni operazione di naming, e molto spesso si cerca accuratamente di evitare qualsiasi rimando ad una sfera religiosa. Eppure qui, con Jesus, siamo di fronte a una chiara operazione di provocazione che nasce dal naming stesso (per questo mi stupisce che il caso sia stato studiato più nella storia dell’advertising che in quella del naming), un nome che nella combinazione in allitterazione JE-sus JE-ans si prestava ad una copy strategy unica, di chiara “ispirazione evangelica". Ci fu naming potenzialmente più oltraggioso?
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