La situazione politica italiana di questi giorni, a dir poco confusa e confusionaria, ci lascia supporre che qualche nuovo nome (intendo "nome di formazione", non certo di politici di peso!) s'affaccerà da qui alle prossime elezioni. E forse, lo possiamo già dire, non esiste terra più desolata di quella dei nomi dei partiti e della politica, un'aridità che poi inevitabilmente si riverbera in quel pastone illeggibile che è la cronaca politica dei quotidiani italiani. Individuiamo, alla rinfusa, alcune tendenze e linee di sviluppo della problematica del naming in politica (magari un giorno, chissà quanto lontano, una formazione un po' nuova si potrà riconoscere anche dal nome che adotterà).
1. Spesso ricorre la parola "Italia" all'interno della denominazione e questo è forse un pleonasmo, anche se può essere visto in contrapposizione ai movimenti localistici che utilizzano un punto cardinale nella loro denominazione. Resta di fatto che non è più un fattore distintivo.
2. Alcuni ricorrono ancora alla parola "partito", ad altri forse suona vecchia e di apparato.
3. Bisogna fare attenzione alle inevitabili abbreviazioni in sigle, visto che due tra i partiti maggiori differiscono, nella loro denominazione in sigla, per una lettera L soltanto (non è il massimo).
4. Alcuni soffrono di una certa ambiguità. Ricorrono (alberoniamente?) alla parola "movimento" per marcare un distacco dai partiti tradizionali, ma prendono sempre più, almeno nel linguaggio giornalistico, anche il nome "diminutivo" estivo-canterino dal loro leader.
5. Una grande innovazione nel naming partitico degli ultimi decenni fu forse quella, banale e continentale, ma inedita e probabilmente efficace per orientare la grande fetta degli indecisi, di ricorrere al nome di un colore per nominare una formazione "trasversale" (anche se il colore è sempre stato un codice distintivo di tanti partiti e/o movimenti, poche volte il colore era diventato nome). Forse da allora il mondo è meno verde, ma questo è un altro discorso.
6. Che il successo di certi movimenti localistici si possa imputare, banalmente, anche al ripescaggio di parole come "liga" o "lega" che hanno una lunga tradizione in Italia?
7. Alcune parole come "libertà" tendono a svuotarsi, a causa dell'appropriazione congiunta su più fronti (pensiamo ad esempio a FLI, SEL e al PdL) o a trasformarsi in inquietanti plurali nel discorso politico; lo stesso può valere per un'altra parola come "alleanza".
8. Altra domanda che talvolta mi faccio: che il sogno proibito di tutti i partiti sia trovare/replicare un naming come "Democrazia Cristiana"? C'è chi prova con una U davanti, in sigla, ma non è la stessa cosa (e lo sanno loro stessi per primi).
9. Di fondo si registra una grande instabilità dei nomi e una massiccia stabilità delle facce. I nomi nuovi delle formazioni fanno notizia soltanto perché sono "nomi di nuove notizie". Un nome come "Ulivo" (senza esprimere alcun giudizio di valore) era per certi aspetti innovativo, soltanto un po'... statico, anche se è vero che i poveri ulivi vengono espiantati dalle loro bellissime terre per popolare anche i volgari giardini del nord.
10. In sostanza, finora quasi nessuno si è distinto per una denominazione originale, che sapesse differenziarsi, essere memorabile e comunicativa ad un tempo, essere pure rispettosa di un programma e degli elettori. I partiti saranno anche andati a lezione di marketing (e su certi aspetti lo notiamo) ma al contempo bisogna dire ai loro professori che è mancata una lezione sul naming.
Che lo specchio migliore della nostra situazione politica siano i nomi che saranno stampati sulla prossima scheda elettorale? Forse non lo specchio migliore, ma semplicemente uno specchio.
Siete inutili BUUUUUUU
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