sabato 28 aprile 2012

Il naming oscuro secondo Marcovaldo

"Il carrello di Marcovaldo ora era gremito di mercanzia; i suoi passi lo portavano ad addentrarsi in reparti meno frequentati; i prodotti dai nomi sempre meno decifrabili erano chiusi in scatole con figure da cui non risultava chiaro se si trattava di concime per la lattuga o di seme di lattuga o di lattuga vera e propria o di veleno per i bruchi della lattuga o di becchime per attirare gli uccelli che mangiano quei bruchi oppure condimento per l'insalata o per gli uccelli arrosto. Comunque Marcovaldo ne prendeva due o tre scatole". 


Quello che avete letto è un passo di Marcovaldo di Italo Calvino. Appartiene a quel capitolo dove Calvino riprende la numerosa e squattrinata famiglia del protagonista al supermarket, ogni componente a spingere un carrello, pur mancando i soldi per riempirne anche la sola metà di uno. Mi ha fatto pensare a cosa può aver combinato/scombinato l'atterraggio di segni linguistici non immediatamente decifrabili sugli scaffali dell'odierna distribuzione: nomi, diciture, etichette, iconografie, cromie altamente codificate. Anche un nome semplice come "Dash" non era necessariamente pronunciato univocamente e ricordo infatti, negli Ottanta, di averlo sentito pronunciare con e senza h. E il perboratex della pagina pubblicitaria sopra riportata? Il marketing, la pubblicità, la lingua della pubblicità delle origini che non ammette e non attende risposta (deve infatti suscitare qualcosa, stimolare, in una cornice da psicologia comportamentista) e, quindi, metonimicamente lo stesso naming (inteso come sottoinsieme della lingua della pubblicità), negli anni del cosiddetto boom hanno introdotto nomenclature nuove e spesso stridenti con le lingue della vita quotidiana, violenze verbali prima inesplorate (vi ricordate il magistrale contributo di Gianfranco Folena Metti un tigre nel motore dedicato a Esso?). 


Oggi quale situazione registriamo? Forse non ci preoccupiamo più di capire un nome. Non sempre è necessario. Non serve. I nostri neuroni sono abituati ad una grammatica pubblicitaria sin dall'infanzia e le nomenclature stravaganti forse sono persino attese. Lo spazio semiotico delle marche vibra in ogni centimetro quadro, nulla è lasciato al caso e il consumatore sembra diventato così scafato e attento da "sgamare" le marche che non si prestano a questo gioco, abbassandone il valore percepito. Per noi è normale trovare nel banco dei prodotti lattiero caseari nomi quasi-farmaceutici ("Lc1", "Actimel", "Yakult"), spostandoci negli scaffali home care scope che si chiamano "Pippo" e, avviandoci alle casse, surgelati che si chiamano "That's Amore".


Per chiudere: trovo curioso che Calvino sia uno degli autori più saccheggiati dai pubblicitari, soprattutto per le sue Lezioni americane. I titoli di quelle famosissime conferenze hanno spesso suggestionato chi lavora in comunicazione, e molti le hanno riprese e citate, talvolta a vanvera.

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